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Testo critico sull’artista Enrico Savi

Testo pubblicato sul catalogo della personale di Enrico Savi Luoghi dell’immaginario (Edizioni Allemandi), curata da Flavio Arensi e Laura Luppi.

Castello Visconteo (Legnano), dal 24 ottobre 2009 al 10 gennaio 2010.

 

 

Enrico Savi. L’immaginazione come luogo della memoria.

Un viaggio, un luogo e un attimo vissuto vengono interpretati da Enrico Savi grazie ad una macchina fotografica interamente di plastica, Holga, che restituisce all’osservatore le potenzialità immaginative di un artista alle prese con una realtà in continua metamorfosi. I concetti di tempo e spazio assoluti ricevono un altro attacco critico dalla presa d’atto della mutabilità di un ente catturato dall’occhio umano, che sintetizza, concentra e concretizza il senso ultimo di una configurazione mai omogenea. Dalla relatività dei punti di vista coi quali è possibile approcciarsi alla fisicità del mondo sensibile, si giunge all’individuazione di un paesaggio, un cantiere o un monumento nelle sue instabili condizioni intuitive. Non è l’intenzione cronistico-descrittiva a muovere la sperimentazione di Savi, ma una ricerca che non si distanzia dalla strada percorsa dal cubismo di Braque, Picasso e Derain, che indagava l’oggettività non nel suo aspetto razionalizzato, ma nelle infinite sfumature con le quali la mente è in grado di percepirne l’apparenza. Così non è un particolare lato della scena a interessare l’artista nella riproduzione di un’immagine, ma la totalità dei piani e delle forme che, disgregate e riaccostate tra loro secondo un ordine personale, le sanciscono una rinnovata veste estetica. La sfera empirica diviene terra fertile per nuove creazioni che non annullano, ma riabilitano la versatilità di un panorama dagli eterogenei connotati. Le visioni surrealiste ottenute con le tecniche della multiesposizione e della sovrimpressione di più scene sullo stesso fotogramma, rimandano a tematiche futuriste che, cavalcando il mito della velocità e del progresso, riaffermano la centralità di un intento comune: “Per far vivere lo spettatore al centro del quadro, bisogna che il quadro sia la sintesi di quello che si ricorda e quello che si vede”. Il cervello ha infatti il potere di sezionare e limitare la facoltà mnemonica, che è garante della connessione tra il ricordo di un oggetto e una sua istantanea apparizione, oltre ad essere fautore della libertà associativa alla base del sogno, che scompone e ricongiunge tracce di memoria in un complicatissimo mosaico immateriale. La mente non è dunque solo la sede del logos, ma anche del “movimento esteriorizzato del pensiero” (Henri Bergson), che collega la coscienza con l’effettività esterna e che trova ampia applicazione nei complessi scatti di Enrico Savi. In questo ciclo di lavori la storica disputa sul rapporto tra essere e apparire, sull’evidenza di una loro dialettica che non perviene mai a sintesi manifesta, riceve fresca linfa vitale. Una linea di confine separa infatti la verità dall’opinione dedotta dall’aspetto superficiale delle cose, che ammette un solo, e a volte ingannevole, rapporto di somiglianza. In virtù del principio di unità che soggiace alla molteplicità delle sue rappresentazioni fenomeniche, l’analisi di un corpo comincia sempre dall’osservazione delle caratteristiche quantitative, per approdare poi ad una conformazione personale delle qualità sensibili, carpite e assimilate dall’immaginazione del singolo soggetto. In questo modo anche un edificio popolarmente noto possiede delle peculiarità specifiche che, assicurando un suo riconoscimento univoco, vengono comunque interiorizzate secondo innumerevoli prospettive, determinate da punti spazio-temporali fissati sul piano cartesiano dell’esistenza individuale.

Proprio dalle riflessioni sulla temporalità dei luoghi mediati dalla presenza dell’uomo, che li ha occupati, soggiogati e plasmati per una sua privilegiata ubicazione, nascono le serie dei boschi, dei cantieri e dei monumenti, di cui Enrico Savi risulta abile demiurgo.

Una natura ancora incontaminata dai soprusi edilizi evoca la malinconia di epoche lontane, di una vegetazione che imponente sovrasta la terra con la poliedricità della sue opere. Rami spogli incontrano radici di tronchi attorniati da foglie morte o letti di torbide acque, che sanciscono la ciclicità della vita secondo le leggi imperscrutabili dell’universo. L’essere dell’uomo nel mondo esercita le sue prime manifestazioni su terreni dimessi dai quali si erigono imponenti impalcature, segno tangibile dello sviluppo urbano che fa della città industriale espressione di un quadro generale sconvolto dalle fondamenta. Infine le opere architettoniche compiute e impresse nel ricordo dei suoi visitatori, si appropriano di un’insolita dimensione in una produzione artistica, in parte progettuale e in parte casuale, arbitrata dall’inventiva di Enrico Savi e dal mezzo fotografico da lui prescelto. L’assemblaggio di singole fattezze di una figura, sapientemente manipolata e immortalata mediante la riorganizzazione di dettagli originali in fotogrammi sovrapposti e in assoluta assenza di interventi digitali, viene circoscritto dalla cornice della pellicola che ne racchiude il senso estetico, esaltando il bianco e nero della stampa da negativo. I difetti tecnici dello strumento adottato, che non prevedono un perfetto allineamento tra il mirino e l’obiettivo, né una facile messa a fuoco dell’immagine, generano altresì un poetico effetto di luci abbaglianti dovuto a infiltrazioni non del tutto inaspettate.

Come tre momenti impermanenti catturati dalla memoria fotografica e riqualificati dall’estro dell’artista, le tre sezioni presentate in mostra permettono dunque un gioco di velamento e s-velamento della realtà, un ponte tra ciò che è e ciò che è stato in continua evoluzione tra essere e apparire.