Testo critico sull’artista Dacia Manto
Testo critico sull’artista Dacia Manto, pubblicato sulla rivista d’arte Juliet (Trieste), n. 145 (dicembre 2009 – gennaio 2010), p.68.
DACIA MANTO
di Laura Luppi
La ricerca artistica di Dacia Manto si posiziona al confine tra la constatazione scientifica delle responsabilità umane sulle alterazioni climatiche (e ambientali) e la possibilità di una proliferazione vegetale (e non) nelle sue innumerevoli espressioni estetiche. Attraverso l’utilizzo di svariati media, tra cui il video, l’installazione e il disegno, Dacia dona vita ad una realtà al limite dell’artificiale, immagine riflessa di uno studio approfondito sulla natura esternamente percepita, ma intimamente esperita. Dalla lettura e reinterpretazione dei più noti saggi di Gilles Clément, nasce l’esigenza dell’artista di immaginare e riprodurre quello che viene definito Jardin planétaire, titolo della personale presentata nel 2008 presso la Galleria Klerkx di Milano. Per giardino planetario, o terzo giardino, si intende un terreno fertile in cui variegate specie possano nascere ed evolversi in piena autonomia, lontane dal pericolo di un intervento invasivo da parte dell’uomo. Infatti, se l’etimologia del termine giardino include il significato generico di “luogo chiuso”, renderlo planetario determina altresì la rottura definitiva proprio di quei margini o recinti che lo tenevano prigioniero e che improvvisamente diventano soglie valicabili da una rapida moltiplicazione cellulare. L’idea sorge dalla necessità di liberare la natura dal giogo del giardiniere ordinario, il quale cerca di regolare e razionalizzare la crescita delle varietà botaniche di uno specifico vivaio. Queste, essendo sempre in mutamento per mezzo delle loro inarrestabili strutture rizomatiche, assumono le sembianze di un unico organismo, complesso nella sua sostanziale diversificazione, eppure semplice nella sua ragion d’essere. A questo intreccio di radici e sconfinate ramificazioni Dacia aggiunge proprio ciò che si sarebbe voluto eludere: il segno tangibile di un inquinamento barbarico, uno dei soprusi più nocivi e autodistruttivi che l’uomo sia mai stato in grado di concepire. I detriti si sedimentano in maniera abusiva proprio là dove sarebbe lecito esclusivamente a piante e arbusti, il cui ruolo centrale nell’ecosistema è da sempre garante della conservazione della vita sulla Terra, allontanando la minaccia di un suo inevitabile annientamento. L’artista, nelle vesti del giardiniere planetario, ha come unico compito quello di osservare il caos cosmogonico senza interferire, ma lasciando come unica traccia di sé quello sguardo che posandosi sulle cose prova a indagarne le cause, nel rispetto delle leggi inviolabili dell’universo. Come già insegnava Lucrezio nel De rerum natura, riproponendo la dottrina filosofica di Epicuro, a qualsiasi fenomeno corrisponde una spiegazione logica, grazie alla quale è possibile carpire la poetica che si snoda tra l’infinito e l’infinitesimale: “…come tutte le cose generate sono dissimili tra loro / nel complesso della loro natura, così è necessario / che ciascuna consti di primi principi di figura dissimile; / non perchè pochi siano dotati di forma simile, / ma perchè non sono tutti generalmente uguali a tutti. / E poiché sono differenti i semi, è necessario differiscano / gl’intervalli, le vie, le connessioni, i pesi, gli urti, / gl’incontri, i movimenti, che non solo distinguono i corpi / dagli esseri viventi, ma dividono la terra e l’intero mare / e tengono separato dalla terra tutto il cielo” (Libro II, versi 720-729).
Una flora in costante movimento, in perfetta armonia con la perpetua metamorfosi delle sue creature, si traduce in mostra nelle fitte mappe morfologiche solcate da stratificazioni di grafite, talvolta circoscritte da cornici barocche che ne delimitano l’area di raffigurazione. Un foglio di carta assurge così al ruolo di campo topografico di analisi ed esplorazione della potenza generatrice del sostrato terrestre dal quale affiorano proteiformi frutti. Le installazioni sono invece palcoscenici su cui è in atto la narrazione di un paesaggio artefatto (nell’accezione specifica di “fatto ad arte da un’intelligenza capace di attività creativa”, la quale presuppone una fase cognitiva preliminare). Per cui il mondo esperito da Dacia Manto rappresenta il modello originale dal quale trarre una copia, o riproduzione artificiosa, in grado di comprendere al suo interno l’origine e la fonte delle sue apparizioni, e non solo. Gli assemblaggi di materiali provenienti dalla società umana si inseriscono in questo ampio panorama come testimoni del loro effetto negativo sull’equilibrio ecologico del pianeta, i cui abitanti non usufruiscono delle energie rinnovabili per interessi prettamente politico-economici. Il soggetto dell’opera è concepito dunque non come pretesto, ma come punto di partenza per un esercizio critico che possa approdare ad un’inattesa esperienza totalizzante dall’intensa valenza empatica. Solo una partecipazione emozionale di questo tipo ha il potere di scuotere le coscienze verso una maggiore attenzione alla condizione stessa dell’esistere, che presuppone una rinuncia da parte dell’uomo al suo desiderio di onnipotenza.