Angelo-Mosca-Esterno Pub, 2007, 40x40 cm, olio su tela, Courtesy Annarumma404

Testo critico sull’artista Angelo Mosca

Pubblicato su Juliet, n. 143, giugno 2009, p. 72.

 

ANGELO MOSCA

di Laura Luppi

Silenzio, intimità, abbandono. Queste le sensazioni che la pittura di Angelo Mosca trasmette all’occhio dell’osservatore, che nelle pennellate fluide e acquitrinose rivive momenti di sospensione dalla realtà, di fuga dall’eccentricità di luci psichedeliche, di cartelloni pubblicitari, di insegne di negozi e motel che troppo frequentemente abbagliano le nostre città, accecando e spesso anestetizzando la lucidità dell’umano pensiero.

Pittura. Dalla pittura bisogna partire per comprendere l’arte di Angelo Mosca, che nella scelta di perseguire una tecnica dalla lunga tradizione rivive e reinterpreta i grandi maestri del passato, senza mai essere ridondante né parassita di dogmi accademici dagli ormai saturi risvolti. Il gesto pittorico, quello della mano che guida un pennello su una tela di lino, è una scelta, una presa di posizione nei confronti di una società che con estrema superficialità si affida alle esigenze della moda, imponendo ogni giorno nuovi strumenti tecnologici per mezzo dei quali commercializzare le banalità della vita. Senza essere mai giudice, evitando di porre lo sguardo al di sopra degli accadimenti, l’artista preferisce fermare gli attimi del vissuto quotidiano con leggeri squarci frontali sulle apparenze del mondo, senza indagare o snaturare gli eventi che gli si pongono innanzi, ma prendendo atto dello scorrere ingannevole delle ore, di quel tempo tiranno che imperturbato passa sopra e attraverso l’impermanenza dell’essere. Il panta rei (“Tutto scorre”) di Eraclito non tarda ad affiorare, come un responso dell’oracolo ai quesiti esistenziali che dall’origine attanagliano la razionalità dell’uomo e che mai trovano una logica giustificazione al triste destino cui si è irrimediabilmente condannati: “negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo” (frammento 49a). Il fiume è sempre lo stesso, come identico è l’irrequieto movimento delle lancette dell’orologio biologico, eppure sempre diverse sono le acque nel loro scorrere inarrestabile come mai identici siamo noi che le attraversiamo, simili eppur diversi in ogni istante del nostro vivere. Mosca interrompe quell’attimo inafferrabile, che con delicatezza viene impresso su un fondale dai colori tenui e spesso freddi, atmosfere fugali di intime conversazioni nelle sale di un pub vittoriano, in accoglienti salotti dai caldi divani rossi (Arianna e Francesco) o su comuni panche all’aperto di giorno (Esterno Pub). Come velate da una sottile patina immateriale le immagini appaiono sfocate, vittime di insolite trasparenze che confondono alleggerendo i contorni di volti, mani e oggetti che abitano la temporalità dell’esistenza.

Per la mostra Reverso, svoltasi presso la Galleria Annarumma404 di Napoli, l’artista ha compiuto un vero e proprio rovesciamento, svelando la struttura su cui l’opera si edifica, togliendo letteralmente quel velo di materia pittorica che celava il disegno preparatorio e che inaspettato affiora ora come ciò che gelosamente veniva preservato, come quel quid imprigionato e finalmente liberato dai retroscena dell’umana coscienza, del pudore e dell’abnegazione. La densità del colore si apre ad un gioco di macchie acquatiche, rivelatrici del senso più intimista di un incontro di pensieri, parole ed emozioni, in equilibrio tra il malinconico abbandono e il desiderio di un’inafferrabile immortalità. Profili incompiuti, indefiniti, come rimossi da una memoria che è labile e mai abile a custodire i dettagli più precisi di un lontano ricordo, si fanno tracce di un vissuto conquistato e ormai perduto. Orme della precarietà dell’essere solcano tele di vario formato dove ogni personaggio è disposto a suo agio, senza ansia né angoscia, attore inconsapevole di un palcoscenico improvvisato. I Portali barocchi di un’Italia del Sud, della Sicilia col suo retaggio di storia, di epoche lontane e di usanze mai abbandonate conducono al ricordo di ieri, di ciò che è origine e fonte dell’identità italica, di una cultura che non rinuncia a fare i conti col proprio passato. Quell’intimismo crepuscolare, suscitato da una prospettiva frontale che non conferisce un giudizio critico, riverbera affinità non inconsuete col torpore delle opere di De Pisis, che a sua volta aveva individuato in Tintoretto, Goya e Monet i suoi riferimenti formali. Cenni impressionisti evaporano da una pittura che trasuda stratificazioni di olio, come fosse acquarello, oceano di sensazioni mai statiche ma fragilmente sospese nell’incertezza del divenire. Cogliere l’attimo, fermare un’immagine, una scena o un volto, un incontro, uno scambio di sguardi e di silenzi attraverso la densità di una luce che sfuma le tonalità di un’aria rarefatta, è ciò che meglio riesce all’elegante e mai esasperato gesto di Angelo Mosca. Dall’Abruzzo alle zone più a sud d’Italia per giungere fino ai panorami inglesi ed europei, l’artista non dimentica la sua terra d’origine e le tradizioni ad essa legate, ridando vigore all’unica azione realmente eversiva di questa confusa e caotica contemporaneità, la pittura.