Intervista a Tiziana Cera Rosco
Un confronto intenso e stimolante per parlare di corpo nudo nell’arte con Tiziana Cera Rosco, artista eclettica e raffinata.
Solo su HESTETIKA MAGAZINE n.24 (gennaio 2017)
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“La parola, la carne e il corpo.”
Intervista a Tiziana Cera Rosco
A cura di Laura Luppi
Ho incontrato l’artista e poetessa Tiziana Cera Rosco in una libreria di Milano. Non poteva esserci luogo migliore per mettersi a nudo attraverso le parole, simulacri dei nostri pensieri, termine che non uso a caso se ripenso alla dottrina epicurea tramandataci da Lucrezio nel suo “De Rerum Natura”. Secondo la teoria dei “simulacra”, infatti, dagli oggetti verrebbero emanate delle immagini atomiche del tutto identiche ad essi le quali, entrando in contatto coi nostri sensi, determinerebbero la percezione e i nostri sogni. Questo varrebbe sia per la parte interna dei corpi da cui provengono (come ad esempio la disposizione mentale degli individui da cui giungono), sia dalla parte esterna, o dalla “carne”, da cui hanno origine. Ma andiamo per ordine.
Tiziana, puoi spiegarmi cosa intendi per “corpo”?
Non so cosa intendo, ma credo che l’esperienza mi lasci intendere che sia lo strumento con cui mando sonde alle estremità dell’essere; come se il corpo fosse una domanda che deve formularsi sempre meglio. Non è un corpo rappresentante di qualcosa, faccio fatica a dire corpo-oggetto o corpo-soggetto. Husserl diceva “gli spiriti sono là dove sono i corpi”. Mi sono attenuta a questo, come a qualcosa che devo meritarmi di ereditare. Quello a cui aspiro credo sia un principio di simultaneità con vivente, che naturalmente ho in me, ma come un volto ancora accecato in parte. Lavorare con l’immagine, con l’autoscatto per come lo uso io, con un nervosismo e una solitudine necessarie, credo mi dia la possibilità di esfoliare una serie di immagini che, trattenute, ne invecchierebbero non la pelle, ma la tensione. E così, dopo che ho scattato o calcato il mio corpo, ossia tolta un’immagine da questa materia oscura che tentiamo di chiamare “corpo”, abbandonata poi l’immagine, mi sembra di abitare una perdita necessaria. Artaud diceva: “Nascere è abbandonare un morto”. Questo faccio.
E credo anche sia questa la ragione per cui lavoro col nudo, col mio. Quando dico “nudo” immediatamente il corpo diventa presente, perché è direttamente col nudo che è nata la fotografia nel mio percorso. Quando ho iniziato, non lo vedevo veramente. Vedevo solo ciò da cui era visto. Era anche molto più culturale di ora, più coperto da quello che doveva essere un corpo. Affrontando le figure del doppio, della preghiera, della dimenticanza, del grido, della caduta, ho iniziato a fotografare tenendo conto dell’oscurità da cui emergono i corpi, o di cui sembrano la continuazione: del buio che isola la figura quando si concentra. E così ho denudato il nudo man mano. E’ come quando parli e parli, e scopri ad un tratto che nella voce c’è la musica e che devi rinunciare a parte delle parole però. Così, per quanto poi nel tempo il mio lavoro sia cambiato, passando dall’oscurità di una stanza alla luce di un esterno, ho sempre tenuto alla figura lirica, perché per me l’immagine è un suono e voglio che canti. “Canto è esistenza” diceva Rilke.
I tuoi lavori sono spesso inseriti in un contesto naturale, la Natura non solo come ambiente che accoglie le tue performance, ma anche come soggetto e allo stesso tempo oggetto della tua arte. Per Merleau-Ponty la Natura è intesa come “l’altro lato dell’uomo (come carne – non come materia)” e il corpo non sarebbe un “corpo-soggetto” o un “oggetto-in-corpo”, ma più propriamente uno dei “miei lontani meno distanti”.
Ho iniziato a performare nel bosco del luogo in cui sono cresciuta. Un bosco di salici argentati, per gran parte sommerso dall’acqua del lago, che quando svuota il suo bacino fa comparire delle mappe che sono la cosa più vicina alla mia mente. Il bosco è un folto di animali – prede e predatori – e vegetali. C’è una vita che riconosco come fosse emanata direttamente dal mio petto. Ho iniziato a performare nella mia terra, dal parco nazionale d’Abruzzo, perché questo conosco, conosco davvero. Questo sì potrei dire è il mio corpo senza dire “io”, o cose che confondono anche me. Nel bosco penso di poter ereditare qualcosa e di essere ereditata. Quando sono lì, ho sempre il sospetto di trovare una traccia di sangue di Dio. La performance poi è una preghiera muta, che mi dice “assorbimi”, con un grado di abbandono di cui non ho esperienza in altre situazioni. Non parlo di trance o cose di questo tipo che non mi interessano, o dell’essere emotivamente partecipi che non capisco mai davvero fino in fondo. Parlo di incontro, di essere nel mio ambiente, con il mio linguaggio, il caldo, il freddo. Per questo riesco a riposarmi, potrei dire, “nel mio corpo” quando performo.
Chissà, questo forse è il mio lontano meno distante, questo. Un rapporto di vicinanza col Sensibile Vivente, non con quella sensibilità che è solo un arrossamento di cui il mondo è zuppo, e di cui non me ne importa nulla.
Il corpo assume spesso un’accezione sacra, mi riferisco soprattutto al tuo modo di presentarlo in forma d’arte. La recente performance, Abluzione, che hai tenuto presso la Chiesa di San Giovanni di Modena, è una sorta di purificazione corporea che celebri attraverso il latte. Puoi parlarcene?
Abluzione è una performance sul lavaggio e sul perdono. Tempo fa avevo fatto un ciclo di fotografie sulla deposizione. Avevo usato un manichino trovato dismesso in un mercatino, bianco, usato, insolitamente morbido, con un volto senza viso. Ne ho poi trovato un altro. È stata una presenza sprigionante; dall’essere un testimone silenzioso in alcuni momenti, fino a diventare l’altra parte del dialogo di cui mi sentivo titolare. Il ciclo di fotografie sulla deposizione che portano come titolo una frase di Camus – “Di che cosa è morta lei? Di oscurità” – ha poi lasciato il posto ad un altro ciclo di foto sul corpo abbandonato dal titolo Relictum, per il quale mi ero costruita una croce dalla quale cadevamo in due (io e lui) mentre cercavo di prendere la sua caduta. Da lì poi è arrivata Abluzione, la performance sul lavaggio. L’immagine è quella della pietà: grandi lenzuola bianche, come da quando ho iniziato a performare anni fa, si confondono tra gonna che accoglie tutto e stracci del lavaggio e delle asciugature. La società arcaica da cui derivo è stata non solo una società di guerrieri, e quindi di riti funebri fortemente legati alla vita, ma anche di flagellanti, dove le donne asciugavano con grandi lenzuola il sangue caduto a terra. Semplicemente lavo questo corpo neutro, che è anche il corpo senza colpa o con colpa del mondo, con il latte e a volte con l’acqua. La performance non si ripete sempre uguale. Mi conduce il posto (per Abluzione chiese o monasteri), o quello che succede nel mondo, per le sue declinazioni. Durante quella nella Chiesa di San Giovanni, ad esempio, ho sfregato così tanto ad una velocità inconsueta da consumare il corpo-mondo sul petto.
Tertulliano nel “De carne Christi” suggerirebbe una connessione tra la carne che accomuna Cristo e gli uomini al fango con cui questi ultimi sarebbero stati modellati da Dio secondo la Genesi. Il filosofo Michel Henry ne respingerebbe invece il nesso, ricordando che secondo il Vangelo di Giovanni è il Verbo ad essersi fatto carne. Sarebbe dunque proprio il Verbo l’origine della carne che accomuna gli uomini a Cristo. La parola, la carne e il corpo, qual è il loro legame?
Io vengo dalla parola scritta, dalla poesia, quella che dicono essere un misto di selvatico e astrazione, e che viene sintetizzata con “mistica”. Ho appena consegnato all’editore un lavoro non artistico in senso stretto, ma poetico: il Commento Alle Ultime Sette Parole Di Cristo Sulla Croce. Ero stata chiamata in Sicilia a lavorare in una residenza d’arte sul Cristo di Burgos: una tela antica anonima che rappresenta un Cristo crocifisso (ma quasi senza croce) che si staglia da un fondo nero, e che veste insolitamente una lunga gonna bianca. Abbiamo dovuto fare la lettura a porte chiuse perché quello che tu chiami fango, io lo chiamo defecazione e prostituzione. Siamo tutti dei tubi di carico e scarico del dolore (oltretutto per la morte in croce l’iter è fisicamente proprio questo, umiliante fino alle budella), e la prostituzione a cui ci espone la credenza ad un linguaggio, allo sperare nel legame che il linguaggio stringe fino alla nominazione delle cose ultime – come il Verbo che tiene tutti i nomi senza declinarli -, ci rende simili. È il morire, il cercare di esperire la morte fino all’abbandono delle speranze che unisce parola carne corpo. È un principio di azzeramento. Avere già in sé il relitto di questo azzeramento, una specie di corpo deposto dentro la nostra forma e che noi interroghiamo costantemente con la nostra sessualità, con la riproduzione della specie, col nostro bisogno mai esaurito che ci sia un eccesso di amore da qualche parte che possa abbattere profondamente la morte; questa specie di cadavere metafisico è un interlocutore vitale costante, quasi più vivo del corpo vivo. Se penso al Verbo, penso a quella cosa viva da cui anche questo corpo deposto sarà ricostruito.
In una società come quella attuale, in cui ogni messaggio pubblicitario ha sempre a che fare con la seduzione trasmessa attraverso la sessualità, l’arte che si occupa di corpo nudo viene fraintesa e demonizzata, accomunata a scarti di pornografia. Ti è mai successo di essere in qualche modo vittima di un tale fraintendimento?
Come si dice, sfondi un portone! Io non ho mai considerato il mio nudo erotico o con quel grado di esposizione che vuole anche l’esibizione di un certo desiderio. La svalutazione è una cosa culturale, non è legata all’oggetto.
Il mondo ha bisogno della potenza erotica per essere sollecitato in molte direzioni, perché questo linguaggio conosce. C’è una voluttà continua che non ha nulla a che vedere con il rapporto tra i sessi o con i movimenti seduttori tra individui che vogliono conquistarsi o prevaricarsi, o accondiscendersi. In realtà il mio accoppiamento col mondo è una forma di legame che parte dalla solitudine, dal voler essere isolata fino al punto in cui quella solitudine dischiude un universale. È così che ad esempio sto lavorando ad Asterione. Quando mi sono trovata nel mio nuovo studio, che è labirintico, ho incontrato dal fondo delle immagini il Minotauro. Ho incontrato nel minotauro Borges la sua versione e ho iniziato ad abitarla, ad essere lui. Si è aperto un mondo. Ho iniziato una produzione di fotografie che erano atti performativi veri e propri: la produzione ossessiva di corpi fatti di bene, che bruciavo e lasciavo per terra a segnare il passaggio. Sono diventata ancora più neutra di quello che mi sento quando dico che non sono né maschio, né femmina; non sapevo se ero un animale con una testa d’uomo o un uomo con un corpo d’animale. Se parlo del lavoro Talea, che sto realizzando con due altri artisti (Annalù Boeretto e Davide Puma) attraverso il nostro innestarsi ispirato, parlo di un metamorfizzare delle forme dove proprio la sensualità del desiderio dell’innesto gestisce i gradi di metamorfizzazione della figura, e tutto questo per me significa accoppiarsi col mondo. È questo il mio linguaggio; è una cosa tanto più tragica quanto più è vitale. Ma il linguaggio amoroso corporale è talmente scarso così come viene condotto nelle nostre educazioni, che un termine come quello di Arborescere potrebbe ancora non dire nulla a nessuno.
So che sei stata spesso “censurata” sui social network…
Sono stata spesso censurata per nulla, per il petto scoperto ad esempio, quando in altre situazioni ero molto più spinta, e non per un semplice dettaglio svelato. Si fa presto ad etichettare perché manca la capacità di giudizio, della formulazione. In Cina sono pornografica, e ho detto tutto.
Poi, come sai, c’è stata l’esperienza della condivisione del corpo dei figli. Un lavoro che avevo fatto tempo fa si intitolava Non Salvarti, ed era un’esortazione rivolta ai miei figli a non credere nel corpo postumo ma a rischiare tutto nella vita al presente, anche il pericolo di non essere salvati. Si può chiedere aiuto sulla vita solo quando si è arrivati nella bocca del leone, non quando si trotterella sul bordo del marciapiede. Ho realizzato foto con loro, e testi. C’erano immagini di noi insieme, una foto in cui baciavo mia figlia sulle labbra che portava il testo di “Buongiorno Uccidiamoci”, in cui incitavo ad uccidere un vecchio modo di amarsi. Non ti dico cos’è venuto fuori! lo stesso è successo per Corpo di Così Bianco Amore, un lavoro fatto col corpo dei miei genitori e dei miei figli. Un bacio con i miei figli (ognuno dei quali aveva scattato il bacio che l’altro mi dava) ha fatto partire una denuncia alla polizia postale che ha vagliato crudamente tutte le mie immagini, ufficiali o meno, non trovando nulla, ma bloccando con la violazione la dinamica della mia produzione.
Infine, ho visto la tua interpretazione della poesia di Mark Strand sul corpo e la sua ombra che hai performato a Ritratti di Poesia 2014. Ho riflettuto su quello che lasciamo agli altri attraverso il nostro corpo o quello che ne rimane con la sua immagine impressa nei luoghi, nei ricordi, nei sensi. Secondo te, possiamo davvero considerare l’arte uno strumento per l’immortalità del nostro corpo e della nostra carne?
Il mio lavoro ormai coincide con me, è tutto quello che mi permette di essere ereditata. Sia in senso di linguaggio di percorso, quindi potrei dire in termini biografici – perché tutto quello che ho fatto è tutto quello che sono e le mie opere sono molto più sincere della conduzione del linguaggio nel mondo degli scambi-, sia in temine di immagine singola – perché ogni foto, testo, scultura, performance è un articolo del mio testamento in vita-. Cito ancora la stessa frase di Artaud finchè non si esaurisce: “nascere è abbandonare un morto”. Sono tutti questi resti quel che rimane di noi mentre cerchiamo di nascere. Gli altri ereditano la nostra morte, ma è dalla nostra vita che la nostra morte ricadrà.