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Mostra “Liqueforme”, Studio d’Arte Cannaviello

Cura della mostra Liqueforme, collettiva degli artisti Gabriele Brucceri ed Enrico Minguzzi c/o Studio
d’Arte Cannaviello (Mi)– comunicato stampa – testo critico pubblicato sul catalogo:

LIQUEFORME

di Laura Luppi

Liquido e forma, trasparenza e solidità, dissolvenza e monumentalità sono i termini dicotomici di una contrapposizione dialettica che trova la perfetta sintesi hegeliana nell’accostamento dei lavori di Gabriele Brucceri ed Enrico Minguzzi. Un percorso difforme quanto affine unisce le ricerche dei due giovani artisti italiani che, senza rinunciare alla natura prima del fare artistico, sperimentano la compenetrazione di tecniche tradizionali, tra cui l’uso dell’olio, dell’acrilico e dell’acquarello, con le nuove tecnologie, quali la fotografia digitale e la progettazione grafica ottenuta con l’ausilio del computer. L’utilizzo ponderato e razionale degli innovativi strumenti offerti alla contemporaneità, unito ad una grande capacità manuale, li conduce a risultati originali, che non privano lo spettatore del piacere di trovarsi davanti ad un’opera di valore artistico oltre che tecnico. Salvare l’arte attraverso la tecnologia per innalzare la tecnologia al rango dell’arte è il Leitmotiv che sincronizza le due dimensioni temporali dell’accademismo e della modernità, e che trova una giustificazione ontologica nelle parole di Neil Postman: “(…) per fare il diagramma dell’ascesa dell’uomo (…) dobbiamo unire arte e scienza. Ma dobbiamo unire anche il passato e il presente, perchè l’ascesa dell’umanità è prima di tutto una storia continua”.

Gabriele Brucceri apre il suo mondo comunicativo agli occhi di un osservatore attento, che nella deformazione dei volti ritratti riscopre il tipico disturbo visivo prodotto dallo schermo di un computer durante una connessione con la web-cam. “Sinestesia”, dal greco synáisthēsis «percezione simultanea», composto di sýn «con» e áisthēsis «percezione», quindi percezione sovrapposta di sensi differenti, è solo uno dei lavori in cui la frammentazione del tempo modifica una forma, la «de-forma», la annulla e allo stesso tempo la fissa in un’immagine di ansiosa attesa. La difficoltà di percezione non si limita solo al campo visivo ma riflette la sua essenza anche nella distorsione di una traccia sonora che si infrange in tonalità acute e graffianti (“Glitch”). La comprensione minacciata dai difetti di una tecnologia che cerca di aiutare gli uomini a superare i confini spazio-temporali, avvicinandoli solo virtualmente, genera la stessa tensione e angoscia che scaturisce dall’impossibilità di giungere ad una pacifica intesa, e che si traduce in una letterale quanto metaforica “Perdita di connessione”.

La ricerca dell’artista non si sofferma però ad un punto di stasi, ma si spinge fino ad addentrarsi nel campo dell’alchimia. Forzando la sua immaginazione oltre i limiti del percepibile, oltre la superficie visibile della carne, Brucceri traduce in arte la frammentazione molecolare della pelle, l’accostamento disordinato e confluente delle cellule che costituiscono il tessuto epidermico. In opere come “Fluido sottocutaneo”, i lineamenti di un volto perdono così la loro originale consistenza per sciogliersi in una deturpazione liquida e simultaneamente corposa, che ricorda un’immagine riflessa in uno specchio d’acqua. Movimento e sospensione temporale convivono in un paradosso irrazionale quanto reale, che trova corrispondenza anche nella tecnica prescelta. Nelle prime tele una base fotografica plotterata permette l’assorbimento di olio e acquarello, una velatura di colori chiari e di toni bruni stesi con sottilissime pennellate, quasi impercettibili. Nelle opere di Gabriele Brucceri il richiamo alla sperimentazione di artisti come David Hockney si colloca solo ad una prima fase progettuale, che dimostra invece una totale indipendenza nella sua realizzazione finale. I lavori più recenti, invece, sono frutto di un’evoluzione che trova compimento in una pittura più materica, in colori più decisi che riescono comunque a preservare quella dissolvenza non più dovuta ai difetti di una comunicazione virtuale, ma alla composizione e «s-composizione» fisica della materia organica. Infine l’artista si diverte a confondere e stupire l’osservatore affidando al digitale l’effetto pittorico e alla pennellata l’effetto grafico del digitale, un artificio di non facile «s-velamento».

Enrico Minguzzi predilige invece colori acidi e forme monumentali che impongono la loro gravità incorporando lo spettatore all’interno di uno spazio pittorico, che amplifica la sensazione di smarrimento ed estraniazione dalla realtà. Un gioco di luci intenso istituisce un’atmosfera allucinatoria.

Il luogo prescelto dall’artista per le sue indagini è il bagno, uno dei primi ambienti della quotidianità che può tuttavia risultare tra i più banali ad un occhio poco attento. Le vasche, i lavandini e i rubinetti offrono infatti una gamma di riflessi inaspettati, il cui effetto viene accentuato rovesciando il punto di vista dell’osservatore che si trova improvvisamente proiettato all’interno di un’enorme conca lucida e scivolosa. La perdita di orientamento e di equilibrio viene suscitata da un campo visivo destabilizzante, ottenuto attraverso tagli fotografici e scatti ravvicinati accuratamente progettati dall’artista. L’aspetto più istintivo e creativo del suo lavoro si concretizza invece nella fase più propriamente pittorica, facendo largo uso di pennellate libere e sciolte. L’ambivalenza tecnico-artistica di Minguzzi, che prende le mosse da un figurativo più rigoroso fino a varcare il limite dell’astrattismo, è evidente in opere come “Dicotomia” e “Notturna”. Quest’ultima, in particolare, è composta da due tele che suddividono gli antitetici territori del suo fare (il lato razionale e quello irrazionale, la figurazione e l’astrazione, il calcolo e la gestualità), che confluiscono però in una sintesi equilibrata, come elementi appartenenti ad un’unità inscindibile. In “Fulgido buio”, invece, l’atmosfera paradossale di un’oscurità luminosa rimanda alla contrapposizione tra il giorno e la notte, tra coscienza e inconscio, tra la noiosa routine giornaliera e il fascino di sensazioni distorte da tenebre rischiarate da un sottile bagliore lunare.

L’artificiosità che si riscontra nell’ideazione dell’immagine, nella predilezione di colori di un’acidità estrema, nelle rifrazioni prodotte da luci intense e piani brillanti, altro non è che una critica all’analoga affettazione della società contemporanea, che catalizza l’attenzione sulla sfera del superfluo e dell’approssimativo. L’esasperazione cromatica trae ispirazione dallo svilimento di una macchina sociale che riqualifica un oggetto futile e banale innalzandolo sul podio dell’inutilità. Per contrasto e per assurdo, dunque, anche il bagno con la sua potenzialità estetica può divenire un nuovo luogo della contemporaneità, un moderno ambiente di accentramento e concentramento, di perdita e di evasione. Nelle tele di Enrico Minguzzi, dunque, il quotidiano scorre veloce come gocce d’acqua sulle superfici di un bagno «iperreale».