Andare a una mostra e… soprattutto arrivarci
“Ciao Laura, stanno cercando un’insegnante di danza in questa scuola. Io non posso andarci, contattali tu.”
“Grazie Erika, volentieri!”
“Senti, ma se andassimo insieme alla mostra di Miró stasera?”
Detto, fatto. Nel giro di un paio d’ore sono già in auto per andare a prenderla. Appuntamento al benzinaio vicino casa sua.
“Abito in una via stretta e corta, e per uscire poi dovresti fare mille manovre. Meglio se ti raggiungo lì a piedi”.
Come inizio promette bene.
Arriva raggiante con un abito che… un momento quell’abito ce l’ho anch’io! E la prima conferma di una certa affinità elettiva mi giunge chiara e nitida. D’altra parte in comune abbiamo il colore dei capelli, il segno zodiacale (dei gemelli), e alcune passioni tra cui appunto l’arte e la danza.
Governate dal pianeta Mercurio, quello delle chiacchiere, cominciamo subito a raccontarci reciprocamente le varie peripezie capitateci negli ultimi anni, compresi viaggi rocamboleschi e avventure di varia forma e natura. In pochi minuti siamo a Milano, parcheggiamo l’auto, e ci dirigiamo verso la fermata della metropolitana gialla su mia decisa iniziativa. Saliamo sulla metro e dopo circa quattro o cinque fermate mi sorge un dubbio.
“Ma dobbiamo andare in Duomo, giusto?”
“Eh no, mi sa che il Mudec è in via Tortona…”
“Il Mudec, ah già! Tu mi hai detto Mudec al telefono, ma io chissà perché ho pensato al Museo del Novecento! …e niente, torniamo indietro!”
E la prima follia della serata si compie, senza grandi intoppi. Con le lacrime agli occhi dal ridere decidiamo di invertire la rotta e tornare alla mia auto, dato che, tra l’altro, ho anche lasciato il cellulare incustodito sul sedile del conducente. Giro inutilmente panoramico fatto, mi rimetto alla guida, ma questa volta per la destinazione esatta: via Tortona.
Arriviamo giusto qualche minuto prima della chiusura della biglietteria, con una puntualità a dir poco disarmante viste le circostanze. Poco male, la mostra Joan Miró. La forza della materia ci attende. Cominciamo così la nostra visita tra le oltre 100 opere provenienti dalla collezione della Fundació Joan Miró di Barcellona, ma presto veniamo magneticamente attratte dalla postazione multimediale provvista di occhiali 3D e cuffie stereo per immergersi in un viaggio virtuale tra le stanze dello studio dell’artista spagnolo. Non appena ci impossessiamo della strumentazione a disposizione giunge in soccorso (non richiesto) un premuroso assistente di sala, il quale pare preoccuparsi con una certa insistenza della nostra incolumità intimando di sederci per non subire giramenti di testa inaspettati, indicandoci la rotellina per la messa a fuoco, quella per la regolazione del volume, ricordandoci di stare sedute, mi raccomando, per non farci male, e di mettere a fuoco altrimenti non si vede bene e se non si vede bene… eccetera, eccetera.
A viaggio virtuale concluso, stupite dell’esperienza come due bambine che hanno appena scartato un regalo, ci rialziamo riponendo gli accessori sui rispettivi ripiani. La caparbietà del gentile assistente di sala si fa però sempre più pressante, ma irresistibilmente divertente nel suo tentativo di anticiparci con precisione tutto l’itinerario della mostra, le altre postazioni virtuali che avremmo incontrato, i video, le poltrone bianche, le tende a frange e dietro le tende a frange l’immancabile “bu-sciò”. “Bu-sciò”? Eh no, io non mi trattengo ed Erika neppure, ma riusciamo a scoppiare a ridere solo dopo averlo abilmente dribblato con una scusa. Proseguiamo quindi il tragitto e incappiamo in un’altra postazione multimediale a cui ovviamente non vogliamo rinunciare.
“Io non vedo niente, e tu?”
“Nemmeno io, questo coso non funziona”.
E io, non so come, mi ritrovo intrappolata nel filo delle cuffie tanto che per liberarmene sono costretta a sfilare il braccio come dalla morsa di una manica troppo stretta. (Che le cuffie nel frattempo si siano aperte in due, nonostante il nastro adesivo le tenesse vanamente assemblate, lo metto tra parentesi perché a confronto mi sembra un dettaglio superfluo). Riscoppiamo a ridere, ma non ci diamo per vinte. C’è ancora molto da vedere. I bronzi sono stupendi, i disegni e i dipinti a olio vivaci e su supporti sempre diversi, ma quel video proiettato sul soffitto dell’ultima saletta, no, proprio non lo capiamo. Sdraiate sui pouf bianchi e col naso all’insù (come precedentemente istruite dal nostro fedele assistente di sala) prendiamo visione di un cortometraggio di spruzzi di pittura che paiono più schizzi di sangue su parete, il tutto farcito con sottofondo musicale che a me ricorda tanto i film dell’orrore. E poi fa un freddo micidiale, tutta colpa dell’aria condizionata, meglio andare. Sollevandoci faticosamente come fossimo due amiche di una certa età e non giovani e sciolte insegnanti di danza, superiamo il confine della tenda a frange, varcando la soglia del famigerato “bu-sciò”. Penne, cuscini, bracciali, gadget, ma a noi nulla importa perché già ci stiamo confidando altri segreti e progetti.
Fine della serata? Manco per niente! Il biglietto della mostra di Miró include l’ingresso omaggio per la collezione permanente del Mudec e per un’esposizione di oggetti di Design; ingresso omaggio che però Erika ha distrattamente perso chissà dove.
Ma certo, siamo entrate lo stesso, e abbiamo visto divani e poltrone comodissime per invertebrati e monili antichi che avremmo tanto voluto comprare per arricchire uno dei nostri costumi di danza fai-da-te.
Ancora la danza, poi l’arte, e la vita, davanti a due birre fruttate in un locale poco distante; i desideri che la notte vanno a spasso con la realtà, e che ogni tanto hanno la fortuna di incontrare qualcuno sulla loro strada.
Riaccompagno Erika. Aveva ragione, la via di casa sua è davvero corta e stretta eppure i suoi sogni sono così tanti e grandi. Avrebbero bisogno di più spazio, penso, e intanto sorrido anch’io guardandoci nel nostro entusiasmo come Jacques Prévert vedeva Miró: “Un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni”.
Di Laura Luppi
Un grazie a Erika Di Vittorio per l’indimenticabile serata.