Testo critico sull’artista Umberto Chiodi
Recensione della personale di Umberto Chiodi c/o Galleria Nazionale di Belle Arti di Sofia (Bulgaria), pubblicata sul periodico d’Arte Contemporanea Segno (Pescara), n. 219, pp. 42-43.
UMBERTO CHIODI
di Laura Luppi
Il famoso enigma della sfinge riporta l’uomo alla sua caducità, a quella sottile linea di confine che separa la vita dalla morte, la pulsione di Eros da quella di Thanatos, il desiderio di creazione da quello di annientamento. Il mito di Edipo e della sua innocente colpa, dell’archetipo del genio che oltre all’aspetto razionale e ponderato del suo fare artistico è pervaso da un istinto irrazionale che lo conduce verso i territori oscuri della natura primordiale, bene si confà al suggestivo e raffinato mondo di Umberto Chiodi. Le opere del giovane artista sono infatti abitate da un enigma insolubile, che dalla poeticità di un universo simbolico fa ritorno all’origine tragica dell’esistenza, rivestita però di un abito ironicamente romantico e sarcasticamente provocante. Ogni oscenità viene disconosciuta e sospesa in immagini di innocente perversione, come in “Le Ammaliatrici”, “Il Pollice Verde” e “Discesa di H”, che richiamano alla mente il sapore proibito dei romanzi del marchese Donatien Alphonse François de Sade e del cavaliere Leopold von Sacher-Masoch. Le eroine di Chiodi sono infatti caratterizzate da una sensualità diabolica, da una voluttà imperiosa che fonde crudeltà e benevolenza, e la cui spensierata gioia di vivere appare allo spettatore come un peccato da dover espiare. Osservando opere come “La bella insonne”, “Ti presento mia madre” e la serie “Anny – Versa – Rjo” riecheggiano ancora le parole di Gogol: “la vera musa canonica è quella sotto la cui maschera ridente grondano le lacrime”. La Madre Terra richiama ancora la sua prole al triste destino della sepoltura nel fatale grembo che l’ha generata.
Gli antichi satiri e le danzanti menadi rivivono così in creature antropomorfe e cortigiane generose che riempiono le file di nuovi cortei dionisiaci, il cui coro eleva l’ebbrezza terrena all’estasi metafisica. Il riferimento intellettuale al simbolismo del passato, da “Il giardino delle delizie” di Hieronymus Bosch fino ai capolavori di Emile Fabry e Charles Maurin, viene spezzato e rovesciato dall’irruzione di oggetti della quotidianità, tra cui caffettiere e giochi dell’infanzia rappresentati dalle banconote del Monopoli, che superano la dicotomia tra cultura alta e costumi popolari. Televisori e antenne offrono invece lo spunto per una riflessione critica sull’uso smodato delle nuove tecnologie, che alterano la struttura dei rapporti sociali. Ogni elemento trova la giusta collocazione all’interno di uno spazio onirico che impedisce di postulare delle spiegazioni ai fenomeni del mondo; il sogno, dunque, come desiderio di liberazione da un kafkiano senso di colpa che attanaglia le menti dei personaggi dal cui cranio fuoriescono i mostri del passato, i fantasmi di una coscienza privata della possibilità di agire senza vergogna (“Il Diavolo mi tira le orecchie”). I grandi occhi scrutatori di molte opere di Chiodi, che giudicano il colpevole con la sola forza della loro presenza, subiscono invece una censura in “Cuore non duole”, l’accecamento come edipica punizione alla scoperta dell’incesto compiuto.
L’atmosfera gotica e grottesca traduce in immagini quel vibrante orrore generato dalla lettura dei racconti di Edgar Allan Poe, magistralmente descritto da Baudelaire come lo scrittore che “ama agitare le sue figure su fondi violacei e verdastri, che rivelano la fosforescenza della putredine e il presentimento del temporale”. Chiodi sembra assolvere ad un compito analogo attraverso una straordinaria creatività supportata da una notevole capacità grafica e pittorica, che opera con l’ausilio di molteplici tecniche tra cui affiorano in particolare l’uso della china, del pastello, del carboncino e della pittura ad olio. Il tratto sciolto e il colore fluido ed evanescente creano un libero movimento dell’immagine, una vibrazione continua che spinge lo sguardo dell’osservatore a seguire un percorso che non giunge mai ad un traguardo ultimo. La contemplazione delle opere di Umberto Chiodi, che certo non richiamano l’attenzione per il piccolo e medio formato ma per il magnetismo prodotto da un raffinato estetismo delle forme, suscita l’illusoria percezione di voci che sussurrano un moderno mistero: “sotto questa vita civilizzata si cela una forza antichissima, magnifica e intimamente sana, che si muove invero potentemente solo in momenti straordinari, per poi ritornare a sognare in attesa di un futuro risveglio” (Nietzsche).