Gustav Klimt, Giuditta I, 1901, Vienna  Österreichische Galerie

“Klimt, un artista dionisiaco tra Bachofen, Sacher-Masoch e Nietzsche”

Articolo sull’argomento di tesi, pubblicato sulla rivista di filosofia, arte e scienza www.secretum-online.it, n. 02/2008, n. 03/2008, n. 04/2008 (ripubblicato n. 19/2008, n. 20/2008).

 

“Klimt, una artista dionisiaco tra Bachofen, Sacher-Masoch e Nietzsche”

di Laura Luppi

La teoria rivoluzionaria postulata da Johann Jackob Bachofen nella sua opera più celebre Das Mutterrecht, eine Untersuchung über die Gynaekokratie der Alten Welt nach ihrer religiosen und rechtlichen Natur, pubblicata nel 1861, potrebbe aver influenzato più o meno direttamente le intenzioni artistico-sovversive di un pittore eclettico e raffinato come Gustav Klimt. Contro una filologia ancora di stampo winckelmanniano, l’autore svizzero ha avvalorato la teoria secondo la quale il mistero materno sarebbe l’elemento originario della società arcaica, di cui l’ellenismo sarebbe invece un più tardo sviluppo in termini degenerativi. Attraverso lo studio delle opere d’arte, dei reperti archeologici, dei miti e dei riti dell’antica Grecia Bachofen ha creduto di poter individuare gli indizi che svelerebbero il fenomeno del matriarcato, quale fase storica primordiale dell’evoluzione di tutti i popoli, durante la quale il potere sarebbe stato prerogativa della donna. Il diritto materno avrebbe ricevuto legittimità dal culto della Madre Terra, a cui si attribuisce la capacità generativa della natura e la raffigurazione simbolica nell’immagine di Demetra, di cui la donna diviene ierofante. Il profetismo femminile risulterebbe dunque più antico di quello maschile e opporrebbe alla forza fisica dell’uomo l’ideale della pace. Secondo le ricerche di Bachofen il matriarcato si sviluppò attraverso tre fasi, la prima delle quali fu regolata dallo ius naturae che prevedeva la libertà di commistione sessuale, la pubblicità della copulazione, nonché la comunanza delle amanti. Contro questo eterismo la donna avrebbe combattuto vittima dell’umiliazione, affermando un sistema ginecocratico attraverso l’istituzione del matrimonio, nella sua immagine simbolica di generazione regolata dall’agricoltura e di unione del principio materiale e spirituale. Ebbe così inizio il progresso della civiltà. Nell’età della donna si scorge infatti un equilibrio basato sull’armonia e sull’uguaglianza che risiede nella sensibilità della madre che sacrifica amorevolmente la propria individualità in favore dei figli, sciogliendo l’umanità dai vincoli dell’egoismo. Il grembo materno è la fonte di ogni vita che non può mai essere svincolata dalla prerogativa della morte, riqualificata però quale più alta rinascita. Il parricidio viene allora concepito come una violazione commessa nei confronti della madre primordiale in uno dei suoi frutti ed in ciò risiede la punibilità del reo attraverso il divieto della sua sepoltura, impedendone così il ritorno alla terra che l’aveva originato. L’impulso della donna ad uccidere l’uomo risulta essere invece un’esasperazione del sistema matriarcale, che condusse alla degenerazione nell’amazzonismo. Lo scontro con un principio superiore avrebbe segnato la fine di tale sistema in virtù di un’ascesa dal tellurico mondo vendicativo delle Erinni ad un nuovo mondo abitato da Menadi e Satiri che, colti dall’ebbrezza e dalla musica dionisiaca, riavvicinarono l’uomo e la donna ad un’intesa amicale. I due termini dicotomici, il principio materiale e quello spirituale, ritrovarono il terreno per una perpetua tensione dialettica e una nuova conciliazione solo temporanea nella figura di Dioniso, colui che secondo il mito vinse le amazzoni e donò alla donna amore e redenzione. Ad essa per prima la divinità si manifestò e da essa in particolare ricevette una devozione e dedizione senza pari. L’ambigua natura di Dioniso sospesa tra sensibile e sovrasensibile, il suo aspetto divino effeminato e sensuale, nonché l’estasi eccitante provocata dall’inebriante vino bacchico incantarono tutto il corteo di seguaci, che in uno stato di alienazione rivisse l’antica appartenenza all’uno primordiale. Le sue feste, le Antesterie, erano legate ai riti di passaggio, al culto dei morti e avevano sempre carattere di inversione sociale, permettendo persino allo schiavo, anch’egli figlio di un’unica Terra Madre, la facoltà di partecipare all’antico mistero del ciclo infinito di esistenza e di annientamento. La spiga nel suo significato simbolico di procreazione regolata dall’agricoltura lasciò il posto all’eterismo frutto dell’ebbrezza del grappolo eccitante. Dunque il diffondersi della religione bacchica e del suo culto condusse la civiltà ad una ricaduta verso quel tellurismo della fisicità provocante, fondato su un rilassamento dei costumi che portò allo scontro finale con il principio spirituale apollineo. A livello cosmico la fase dionisiaca occupò la stessa posizione che la Luna possiede rispetto alla Terra e al Sole e che a sua volta rispecchia quella dell’anima tra il corpo e lo spirito. L’antico diritto ctonio perì dunque di fronte al luminoso dominio di Zeus, la cui vittoria segnò il passaggio ad una fase storica patriarcale, che innalzò l’umanità alla luce della conoscenza.

Di fronte alla paternità apollinea scomparirono sia la madre, sia l’aspetto fisico della procreazione legato all’unione sessuale, dando vita all’idea di adozione spirituale, il cui caso più celebre resta certamente quello di Augusto. La rappresentante di questo stadio prese le sembianze di Atena, la divinità orfana di madre, che nata dalla testa di Zeus difese la legalità del padre e rappresentò la razionalità e l’equilibrio della giustizia. Insieme al fratello Apollo si schierò in difesa del matricida Oreste e votò per la sua assoluzione. Solo così le terribili Erinni furono costrette al silenzio.

Si annunciò dunque la vittoria del giorno sulla notte, del trascendente sull’immanente, del principio maschile che relegò la figura femminile a simbolo della tentazione e del peccato in un ambito cuturale-religioso di impostazione prettamente patriarcale.

Contro una concezione lineare e progressiva della storia, Bachofen ha riscoperto che ogni civiltà ciclicamente percorre tappe pressoché invariate: dalla nascita che la configura nella sua acerbità essa cresce fino a giungere alla sua massima maturità, per poi essere destinata irrimediabilmente a quella fatale esasperazione che la conduce alla decadenza e all’autodistruzione. In Das Mutterrecht infatti ha dichiarato:

Lo sviluppo del genere umano non conosce salti né progressi improvvisi: ovunque graduali trapassi, ovunque numerosi stadi, ciascuno dei quali porta in sé – per così dire – il precedente e il susseguente[1].

Una teoria storica di questo tipo è assimilabile alla teoria storica di Oswald Spengler enunciata ne Il tramonto dell’Occidente.

Non solo, ma la lezione di Bachofen ha fortemente influenzato anche la letteratura dell’epoca, come è apparso evidente per un autore eccentrico e discusso come Leopold von Sacher-Masoch, che rivela delle affinità persino con l’arte klimtiana. Egli, scrittore galiziano fortemente criticato per la sua condotta di vita anticonformista e per il contenuto provocatorio dei suoi romanzi, ha avuto il merito di riattualizzare le tre figure archetipiche della donna, descritte da Bachofen ne Il Matriarcato: l’eterica pagana, la madre fredda glaciale e crudele ed infine la donna sadica nella sua degenerazione amazzonica e dionisiaca. La prima figura corrisponde alla passionale greca libera da qualsiasi vincolo morale o sociale, che vive la passione dell’attimo e che, contraria all’istituzione del matrimonio, si dichiara fautrice dell’indipendenza femminile. La Menade sadica si situa in una posizione opposta ed antitetica rispetto alla libertina pagana in quanto ama torturare la sua vittima sotto la direzione di un terzo uomo, «il Greco». Egli rappresenta l’elemento apollineo, il pericolo dell’irruzione del padre e del rovesciamento del sistema matriarcale in un governo patriarcale. Queste due figure rappresentano i due estremi entro i quali si esplica la madre orale, la carnefice ideale oscillante tra un limite in cui non si manifestano ancora le condizioni per la sua esistenza e un limite in cui la sua presenza perde di significato.

Prendendo in considerazione il ruolo della donna crudele sia nei romanzi che nell’azione simbolica masochista, le affinità passano dal piano letterario a quello psicologico. Il termine «masochismo» infatti prende origine proprio dal nome dello scrittore galiziano, che Krafft-Ebbing associò alla nota perversione sessuale e che imparentò alla letteratura «pornologica» di Donatien Alphonse François de Sade. In virtù di questa conciliazione la psicanalisi ha ritenuto evidente un’affinità tra le due perversioni per mezzo di una certa complementarietà di pulsioni.

Gilles Deleuze con l’opera Il freddo e il crudele ha posto in luce i punti chiave che avrebbero generato tale visione mistificatrice, ridando il giusto risalto alla donna fatale descritta da Bachofen, che prende le sembianze di una Venere in pelliccia nei romanzi e nell’immaginario di Masoch.

Sadismo e masochismo sono dunque due universi trasversali, che nulla hanno in comune se non un mondo immaginario in cui la famiglia e i suoi componenti sono i cardini di un conflitto edipico irrisolvibile e irriducibile. All’interno dell’evento sadico domina il tema patriarcale, secondo cui il padre appartiene alla natura prima ed è colui che distrugge il matriarcato, incitando la figlia ad assassinare la madre, concepita come la vittima per eccellenza. La figlia diviene così la complice incestuosa del padre. L’obiettivo del sadico è la fine di ogni procreazione, il delitto assoluto che può attuarsi solo in un mondo ideale in cui la donna non svolge più il suo antico ruolo di natura generatrice.

La formula del masochista è invece quella del padre umiliato, mancante di qualsiasi funzione simbolica. Nell’azione masochista infatti domina un sistema matriarcale: attraverso un regolare contratto il figlio delega alla madre il potere legislativo ed esecutivo attraverso il quale punisce ed annulla la somiglianza del padre nel figlio. Il pericolo di una prepotente irruzione del padre e del suo dominio sul principio materno viene vissuto come colpa dal figlio, pericolo che però viene esorcizzato grazie ad una nuova rinascita, questa volta partenogenetica. In questo mondo simbolico dunque avviene un duplice disconoscimento: positivo-ideale e magnificante della madre e negativo-espulsivo del padre. La sacerdotessa fredda severa e crudele del romanzo La madre di dio, è la carnefice prescelta per un’ascesa al mondo femminile matrilineare, nonché il corrispettivo di Demetra per gli antichi greci e di Astarte per le lontane popolazioni asiatiche.

Nella vita come nella fantasia gli amori di Masoch per donne caratterizzate da tratti lussuriosi e atteggiamenti crudeli e regali prendono vita dalla contemplazione estetica di opere d’arte, tra cui il richiamo più evidente è al Ritratto di Hélène Fourment di Rubens o alla Venere allo specchio di Tiziano. L’ascesa percorsa dall’esteta masochista prende le mosse dall’osservazione di un’opera d’arte e dall’estasi che questa consente, per passare poi alla sacrificale sottomissione ad una donna reale, che conduce infine alla definitiva devozione di un’ideale antica matrona, unica detentrice del potere religioso e politico. Lei simbolicamente, attraverso la punizione che induce all’espiazione della colpa paterna, innalza il figlio ad una nuova generazione, all’uomo nuovo. Dal punto di vista stilistico inoltre la predilezione per scene sospese conduce il lettore in un’atmosfera di eterea attesa da cui scaturisce un gusto estetico per un mondo onirico, abitato da dee pagane e statue apollinee che custodiscono un antico e affascinante mistero.

L’impresa letteraria, purtroppo rimasta incompleta, è concepita da Masoch nei termini di un Retaggio di Caino, di un’eredità di dolore e sofferenza che opprime l’umanità. Secondo l’interpretazione dell’autore, in difesa del diritto materno è motivato il fratricidio la cui colpa sarà espiata solo attraverso la Passione di Cristo, l’Eletto nato dalla Vergine e accompagnato dalla stessa sull’altare del sacrificio. La croce è dunque simbolo di vita e morte, che nel mistero della madre-albero e del grembo-nave trova esplicazione. I sei cicli di racconti si sarebbero dovuti concludere proprio con la novella La notte santa, ovvero la storia dell’avvento di Cristo che, attraverso la sua rinuncia all’egoismo del mondo, viene proposto come modello per una nuova umanità priva di lusso, odio, patria e proprietà. Importanti non solo per il raffinamento artistico-culturale di Masoch furono anche le influenze ricevute dal mondo ruteno, assimilate per mezzo dei racconti e delle usanze della balia che avvicinò la sua sensibilità ai problemi delle minoranze etniche, e sviluppò il suo pensiero politico in favore di uno Stato multinazionale. Per questo motivo la donna glaciale è per Masoch anche la terribile zarina con cui stipulare un contratto moderno, dal quale possa scaturire un processo di sviluppo economico e sociale in termini liberali.

Friedrich Nietzsche ha ereditato la battaglia già iniziata da Bachofen contro una filologia rinchiusa negli stretti confini della mera erudizione. I primi risultati dei suoi studi prendono vita durante il periodo di insegnamento a Basilea e risentono dell’influenza generata dalla sua venerazione nei confronti di Wagner e Schopenhauer, nonché dalla sua formazione di filologo.

Omero e la filosofia classica del 1869 e le due conferenze sul Dramma musicale greco e Socrate e la tragedia sono confluite in un percorso di ricerca che ha posto in evidenza l’essenza del tragico e la lontananza di questo antico sentimento dagli approcci moderni sia nei confronti del passato che del presente. Il filosofo basilese ha posto sotto accusa una visione della classicità riduttiva e stereotipata entro i tradizionali limiti culturali, che non è in grado di cogliere l’essenza profonda del mondo greco, patria del sogno e dell’equilibrio apollineo, quanto dell’ebbrezza e della musica dionisiaca. La tragedia greca, nata dalla compenetrazione di questi due principi in eterna opposizione, si rivela la massima forma d’arte e d’espressione di una civiltà che ha saputo conciliare la gioia di vivere e il terrore della morte. Essa prende forma dai canti dei cortei di satiri, che colti dall’ebbrezza del vino eccitante, narrano il mito del sacrificio del piccolo Dioniso e del suo smembramento ad opera dei Titani. In questo evento risiede il mistero del ciclo della vita e l’uomo, ridivenuto essere di natura, getta uno sguardo all’uno primordiale e reagisce a tale orrore attraverso una produzione di immagini. L’illusione e la bellezza prodotta dal sogno sono i presupposti di ogni arte figurativa, che ritrova nell’uomo alienato dal mondo e catturato in uno stato mistico l’icona dell’artista per eccellenza, dell’«artista dionisiaco». Gli impulsi tellurici che si manifestano in questa condizione provocano una trasformazione del soggetto in altro all’in fuori di sé, sospendendo l’elemento soggettivo in un oblio di immagini e suoni che svelano la natura del dio. Attraverso le danze e i cori dionisiaci prende atto la riconciliazione dell’uomo con la natura, con il suo istinto primordiale, la sua appartenenza al ciclo infinito di nascita ed annientamento di tutte le creature nel grembo materno. Durante la celebrazione delle Antesterie dunque:

L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria[2].

La produzione artistica legata ad Apollo si esprime in un mondo di immagini oniriche strettamente legate alla razionalità e all’elevazione intellettuale. La creazione dionisiaca è la manifestazione del caos della natura nella sua unità e complessità, svincolata dalle esigenze razionali dell’uomo, di cui sopprime le caratterizzazioni individuali. L’autentico artista dionisiaco diviene colui che accoglie nella sua identità entrambe le pulsioni, razionali e irrazionali. Egli si estranea dal flusso delirante della massa per riscoprire la propria affinità con l’essenza del mondo in un’immagine simbolica di sogno. Nella tragedia greca è manifesta la risoluzione di un conflitto che ha determinato una reciproca contaminazione.

Il sogno permette di ostacolare l’orrore e la crudeltà della realtà e di postulare delle spiegazioni ai fenomeni del mondo attraverso le interpretazioni delle visioni stesse. Apollo mostra che il dolore è necessario perchè è il motore che spinge l’uomo ad avvicinarsi al mondo dell’illusione e della sua conseguente creazione artistica, che ne produrrà la liberazione. Si scopre così che nascosta dietro la maschera della bellezza e della moderazione si cela un fondamento di sofferenza, che riaffiora proprio grazie all’irruzione del dionisiaco. Rincalzano anche la contraddizione e la gioia che nasce dall’annientamento, lo scorrere del divenire che è sempre innocente. L’artista dionisiaco è dunque anch’egli disperazione ed esaltazione primordiale e solo nell’atto della creazione artistica egli si fonde col genio originario del mondo, riuscendo ad intuire qualcosa dell’essenza dell’arte e dell’universo, concepiti come due oggettivazioni di un’unica realtà.

Lo spettatore della tragedia assiste alla proiezione dell’illusione prodotta dal coro dionisiaco, attraverso il quale egli riesce ad uscire fuori di sé per trasformarsi in Satiro altrettanto compartecipe dell’unità originaria. Questo è il fenomeno drammatico che il coro mette in atto e che trova un corrispettivo rituale nell’annullamento delle differenze tra ceti sociali per tutta la durata delle feste dionisiache. Solo in questo modo è possibile riappropriarsi dell’antica uguaglianza derivata dall’essere tutti figli di un’unica terra madre. La negazione dell’individuo e la sua riunificazione nell’unità originaria determinano la realtà del coro che produce fuori di sé la visione estatica e che racconta attraverso il simbolismo della danza, del suono e della parola. Il Satiro è il rappresentante degli istinti selvaggi della natura nelle sembianze di un saggio musicista, un visionario esaltato, poeta e danzatore. Dioniso è dunque l’eroe tragico, di cui Edipo e Prometeo non sono che maschere. Le sofferenze da lui patite per aver sperimentato in prima persona i dolori dell’individuazione attraverso l’antico smembramento sono la condizione per una rinascita, per una nuova giustificazione del caos e dell’innocenza del divenire.

Il tentativo di sistemare logicamente e in ordine cronologico una serie di fatti mitici, cercando di dare loro un fondamento storico e una credibilità inattaccabile, dissolve l’antico senso tragico. Secondo Nietzsche la fine della tragedia è stata una morte suicida, che ha trovato il suo colpevole in Euripide e il suo complice in Socrate. L’uomo greco insieme alla sua massima forma artistica perde così anche la sua fede nell’immortalità, non solo in un passato ideale, ma anche in futuro ideale. Platone giudica la tragedia come un’imitazione di un simulacro, dunque appartenente ad una sfera maggiormente corrotta del mondo empirico. Essa infatti sarebbe una copia di una copia, cioè una sorta di forma ontologica gravemente depotenziata, lontana dalla purezza dell’ Idea trascendentale. Inoltre per Platone gli artisti mentono soprattutto a proposito degli dei e della loro predisposizione ad ingannare gli uomini, attaccando così uno dei capisaldi della tragedia e il suo fondamentale nesso tra virtù e infelicità.

La rivoluzione culturale sorta col socratismo e la conseguente fiducia nella scienza e nelle sue potenzialità ha dunque allontanato l’uomo teoretico dall’antico sentimento tragico, che superava la dialettica tra un al di qua e al di là, quindi tra un mondo sensibile vissuto come illusione e copia di un mondo sovrasensibile ritenuto autentico. Egli infatti crede di poter cogliere l’essenza profonda delle cose attraverso un ragionamento razionale, libero da superstizioni e da condizionamenti sociali. Ciò ha portato ad un progresso culturale e mentale notevole, ma non ha permesso l’esplicazione delle questioni più complesse e inafferrabili all’uomo. La tracotanza derivata da tale impostazione vacilla insieme alle solide basi sulle quali l’uomo razionale ama troneggiare, soprattutto quando scopre che il suo strumento più efficace, la logica per l’appunto, non lo libera dalla contraddizione e dall’errore necessari. Conoscere e plasmare l’essere è una mera illusione metafisica tramandata dall’atteggiamento socratico alla scienza moderna, che sempre deve scontrarsi con i propri limiti.

Nietzsche allora ha auspicato un recupero dell’antica saggezza silenica e della sua corrispettiva forma d’espressione artistica, in virtù di una rivoluzione che riportasse l’uomo a partecipare dell’irrazionale e invincibile legge di natura. Il Greco infatti non temeva la morte e accettava il dolore come essenziale alla ritualità dell’esistenza, le doglie della partoriente come essenziali all’evento del parto. La felicità per ciò che è tragico è quindi una traduzione della sapienza dionisiaca, che attraverso l’annientamento del singolo e la sua sofferenza esprime la vita eterna dell’apparenza. La bellezza vince l’orrore della vita, che sempre riaffiora però come ingrediente della natura da liberare ed espiare nell’arte. L’apollineo deve continuamente strappare l’uomo dall’universalità del dionisiaco, che a sua volta sempre deve svelare l’inganno del sogno:

Dioniso parla la lingua di Apollo, ma alla fine Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in genere[3].

La nascita della tragedia del 1871, testo di riferimento per l’elaborazione dell’ideologia secessionista, può essere definito una rivoluzione filosofica ed estetica attuata attraverso una reinterpretazione della grecità e dei suoi limiti, nonché una critica del sistema culturale ed un programma di rinnovamento di esso. La dialettica tra apollineo e dionisiaco e l’ambiguo significato che la tragedia possiede in termini di liberazione dal e del dionisiaco nell’immagine apollinea sono rimasti gli elementi decisivi di tutta la successiva filosofia nietzschiana, che ha tratto ispirazione dall’osservazione di Eraclito sul nascere e perire delle cose concepito nella forma di polarità, come la scissione di una forza in due attività qualitativamente diverse, opposte e tendenti ad una riunificazione.

Con l’ideale di una giustificazione estetica dell’universo Nietzsche ha proposto un’alternativa alla metafisica socratico-platonico-cristiana. La rinascita auspicata da Nietzsche si è caratterizza come una rivoluzione in cui l’arte e l’artista dionisiaco svolgono il ruolo principale:

“(…) aiutando la scienza a sopportare la consapevolezza dell’errore necessario[4].

Sotto l’impulso dionisiaco prende atto la riconciliazione dell’uomo con la natura, il suo istinto primordiale, il sentimento tragico della sua appartenenza al ciclo infinito della vita e della morte che ha luogo nel grembo materno. L’artista dionisiaco è dunque anch’egli sofferenza e dolore primordiale e sente sorgere dallo stato mistico di alienazione di sé un mondo di immagini e simboli, che percepisce come altre oggettivazioni della sua stessa natura. Dalla «nascita della tragedia» al sogno della «rinascita della tragedia»:

Tutte le nostre speranze tendono (…) con desiderio ardente verso quella visione secondo cui, sotto questa vita civilizzata (…) si cela una forza antichissima, magnifica e intimamente sana, che si muove invero potentemente solo in momenti straordinari, per poi ritornare a sognare in attesa di un futuro risveglio[5].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il genio dionisiaco

Il percorso artistico intrapreso da Gustav Klimt può essere stato influenzato dalle teorie innovative di Bachofen, oltre che di Nietzsche, e dalla letteratura di scomodi scrittori come Sacher-Masoch. Anche se non si hanno prove certe di un’influenza diretta di questi innovativi autori, risulta evidente però che Klimt si avvicinò alle loro considerazioni come per una sorta di affinità elettiva, trasformando in immagini sia l’utopia di una rigenerazione delle coscienze attraverso l’arte che l’ideale di una donna fatale che indossasse la veste dell’antica Erinne greca o della terribile zarina. Il gruppo di giovani secessionisti elaborò un programma estetico-culturale rivoluzionario, rivivendo in prima persona le tensioni politiche e la necessità di innovazione che percorrevano da tempo i vicoli della Vienna imperiale di fine ‘800. Alla Scuola di Arti Applicate Klimt ricevette un’educazione artistica nota col termine «storicismo eclettico», incentrata principalmente sull’imitazione di importanti opere d’arte del passato custodite al Kunsthistorisches Museum. Gli originali in questione erano principalmente vasi antichi greci, rilievi assiro-babilonesi ed egizi, oltre che capolavori di indiscusso valore della pittura europea di tutti i secoli. L’arte classica, concepita secondo i canoni del Winckelmann, era considerata il modello artistico da seguire e riprodurre, secondo il gusto estetico di una borghesia che si sentiva l’erede della grandezza degli antichi. Ma un generale malessere per una tale impostazione accademica aveva già attraversato i corridoi della Scuola viennese a soli vent’anni dalla sua inaugurazione. Queste aspirazioni riformistiche maturarono in movimenti di opposizione concreti per iniziativa di un gruppo di giovani artisti che, dopo aver frequentato l’accademia come allievi, istituì nel 1897 una vera e propria Secessione, di cui Klimt fu presidente e la cui prima esposizione ebbe luogo nel 1898.

La nascita della tragedia pubblicata nel 1872 sulla scia del saggio di Wagner su Beethoven del 1870, fu il testo cardine sul quale fu formulata l’ideologia di rinnovamento culturale fortemente voluto dai pittori esordienti. Nietzsche aveva dunque svelato i due principi del fare artistico, il lato razionale e quello irrazionale rispettivamente sotto il segno di Apollo e Dioniso, che avrebbero ricondotto la modernità al vero senso tragico della vita e dell’arte che ne è lo specchio:

“(…) di quel fondamento dell’esistenza, del sostrato dionisiaco del mondo, può passare nella coscienza dell’individuo solo esattamente quello che può essere poi di nuovo superato dalla forza di trasfigurazione apollinea, sicché questi due istinti artistici sono costretti a sviluppare le loro forze in stretta proporzione reciproca, secondo la legge dell’eterna giustizia[6].

Anche molti giovani intellettuali si sentirono spinti verso l’indagine della sfera nascosta e sconosciuta della natura, quella che sotto la crosta del perbenismo nasconde un mondo interiore abitato da pulsioni apparentemente scandalose. L’intento della letteratura di Sacher-Masoch, ad esempio, fu quello di svelare e denunciare l’ipocrisia delle giovani borghesi e del buon gusto di una classe che in realtà celava i propri vizi dietro la maschera delle virtù. Testimone di tale situazione fu proprio la compagna dell’eccentrico scrittore, che nelle sue memorie racconta:

Quante leggende, vere o false, erano nate sul nostro conto! C’era forse da meravigliarsi che uomini che conoscevo appena osassero farmi i complimenti più sfacciati, convinti di rivolgersi all’interlocutrice giusta, e che le donne mi raccontassero, senza alcun pudore, le loro avventure amorose, quasi intendessero dire: «parliamo tra noi»?[7].

Nello stesso periodo nasce la psicanalisi di Freud, con la scoperta dell’inconscio quale causa remota delle nostre azioni e la rivalutazione dell’eros, inteso come pulsione positiva e fondamentale della natura umana, contrapposta alla pulsione di morte, ben più difficile da decifrare. Questo complesso di problematiche inoltre assunse la forma di un’inedita rivalutazione della donna e dell’eros che le è proprio, evidente anche nei romanzi di Masoch oltre che nella pittura simbolista di tutta Europa. Questa nuova attenzione al mondo femminile era stata già posta in luce da Bachofen, che non solo cercò di dimostrare la veridicità dell’ipotesi del matriarcato quale sistema all’origine delle società orientali ed occidentali, ma contribuì anche a restituire onore e dignità alla donna e alla sua sacralità, sacrificata in virtù del dominio patriarcale. La matrona, rappresentando il potere generativo della madre terra, include nella sua essenza sia il lato vitale che mortale della natura, sia le pulsioni di Eros, che quelle di Thanatos.

L’eterna opposizione dei due principi, materno e paterno, tellurico e spirituale, lottano per una supremazia solo temporanea che si risolve sempre in nuova sintesi:

Vediamo il principio paterno ridiscendere dalla purezza apollinea alla maternità dionisiaca, e così apprestare al principio femminile un nuovo trionfo, ai culti materni una nuova fioritura[8]

Ed ecco affiorare l’eroina che vendica la sacralità della legge di natura, tipica dei dipinti di artisti come Gustave Moreau, Fernand Khnoppf e Franz von Stuck, da cui Klimt trasse ispirazione per la sua estetizzazione della donna fatale

Non solo la generosità della Dea Madre, ma anche la violenza e la forza terrificante dell’amazzone, che lotta per difendere il proprio diritto antico contro i soprusi dell’uomo e del sistema patriarcale che la minaccia, sono al centro degli interessi di Klimt in quanto artista dionisiaco. Egli dipinge donne regali, dallo sguardo minaccioso, che obbligano l’uomo alla sottomissione e alla punizione per aver oltraggiato la loro sacralità. Esse sono le garanti del mistero della vita, del ciclo di nascita e annientamento. L’opera Giuditta I ne è il più chiaro esempio. Il dipinto raffigura l’eroina biblica che sedusse Oloferne con l’inganno, per poi ucciderlo. La testa mozzata del generale diventa il più importante attributo della giovane vedova, che fa scivolare il trofeo fuori dallo spazio visivo. L’artista non racconta l’evento biblico, ma raffigura semplicemente Giuditta nelle sembianze di una crudele carnefice, nella veste di un’orientale sacerdotessa, Erinne vendicatrice del principio matriarcale. La collana art nouveau che indossa sembra separare il capo dal resto del corpo e alludere così alla fredda decapitazione del colpevole.

Giuditta ricava dal suo atto eroico grandi onori e ricchezze, rifiutando per il resto della sua longeva vita qualsiasi proposta di nuove nozze. Il significato di tale scelta potrebbe annidarsi nella volontà di tutelare il proprio potere che altrimenti passerebbe nelle mani di un uomo. Riecheggiano le parole di Masoch:

Amare ed essere amati, quale felicità! Eppure come impallidisce tanto splendore di fronte alla tormentosa beatitudine di adorare una donna che fa di noi il proprio trastullo, quale estasi essere lo schiavo di una bella tiranna che ci calpesta senza pietà. (…) lessi il libro di Giuditta e invidiai al feroce Oloferne la donna regale che gli mozzò il capo, e la sua fine sanguinosamente bella. «Dio lo ha punito e lo ha dato in mano ad una donna». Quella frase mi colpì. Come sono poco galanti questi ebrei, pensai, e il loro dio, quando parla del bel sesso, potrebbe anche scegliere espressioni più gentili[9].

Resta importante precisare che la donna fatale fu percepita come pericolo incombente anche a causa del progressivo mutamento del ruolo sociale della donna alla fine del XIX secolo. Klimt però non fu mai realmente interessato ad analizzare il fenomeno in termini storici e culturali, ma ebbe comunque il merito di estetizzarne il problema. Un certo allegorismo è sempre presente nelle figure femminili dipinte da Klimt, come risulta evidente nella raffigurazione di Igea in La Medicina o delle forze avverse del Fregio di Beethoven.

Ma la figura femminile che divenne l’icona della rivolta secessionista fu senza dubbio la Nuda Veritas , raffigurata anche nel dipinto Pallade Atena al posto della Nike greca tenuta in mano dall’Athena Parthenos di Fidia, da cui Klimt trasse chiaramente ispirazione.

La giovane donna è una sorta di scultura vivente estatica e sensuale, scortata da denti di leone e da un serpente, entrambi emblemi dell’arte. Gli uni alludono alla parte razionale dell’uomo e della sua ricerca artistica, mentre l’altro, tradizionale attributo di Atena e Dioniso, alla sua dimensione ctonia, oscura, dionisiaca. La Nuda Veritas rappresenta l’Arte Vivente, che porge uno specchio allo spettatore perchè vi scorga il vuoto in cui vegeta il morente impero austro-ungarico, ostile a qualunque innovazioni. In questa accezione risuonano le parole di Nietzsche sull’artista:

“() la sua opera non è che una lente di ingrandimento che porge ad ognuno perchè guardi[10].

La donna offre il suo corpo e le sue voluttà all’attenzione di tutti. Il realismo del nudo, così lontano dall’idealizzazione che ne aveva fatto una tradizione artistica millenaria, urtava il perbenismo borghese, in un’epoca in cui le scoperte di Freud sulla sessualità erano sentite come una scomodo oggetto di discussione. La Secessione va interpretata come una rivolta generazionale, come una ribellione dei figli, i giovani artisti, contro i padri, i maestri conservatori dell’accademia. Nel senso di questa opposizione si possono intendere le parole di Schiller, poste sulla parte superiore dell’opera:

Se con le tue azioni e la tua arte non puoi piacere a molti, piaci a pochi. Piacere a molti è sbagliato”.

Tale citazione alludeva senz’altro alle polemiche suscitate dal nuovo corso dell’arte klimtiana e dal carattere demoniaco delle sue protagoniste. La Secessione si poneva in qualche modo in una posizione elitaria, in quanto i suoi artisti erano considerati gli unici eroi che avrebbero potuto salvare l’umanità, attraverso il recupero dell’antico senso tragico.

In questo intento riaffiora la fiducia di Nietzsche nella rigenerazione del gusto e del senso estetico attuabile solo dall’artista dionisiaco, l’incarnazione del genio nella sua opera d’esaltazione dell’amore e dell’abnegazione che può redimere l’uomo:

“(…) solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono giustificati. (…) Solo in quanto nell’atto della creazione artistica il genio si fonde con quell’artista originario del mondo, il primo sa qualcosa dell’essenza dell’arte; giacché in quello stato egli è miracolosamente simile all’inquietante immagine della fiaba, che può girare gli occhi e guardare se stessa[11].

Il Fregio di Beethoven racconta la storia della liberazione dell’uomo attraverso l’arte. Lungo ventiquattro metri e sviluppato su tre pareti, il capolavoro fu presentato all’Esposizione della Secessione dedicata alla grande scultura in marmo di Max Klinger, raffigurante l’apoteosi di Beethoven.

L’intera manifestazione fu concepita come celebrazione del grande compositore, su cui si sviluppò proprio in quegli anni un vero e proprio culto, alimentato dalla venerazione di musicisti come Franz Liszt e Richard Wagner. Klimt e i suoi collaboratori riscoprirono in lui l’eroe martire e salvatore. In occasione dell’inaugurazione venne inoltre eseguito l’Inno alla Gioia diretto da Gustave Mahler, e il tema del fregio klimtiano fu un’interpretazione della Nona Sinfonia. In quest’opera di enormi dimensioni viene messa in scena la tragedia dell’uomo che, attraverso un percorso tra virtù e forze avverse, riscopre che l’anelito della felicità si placa solo nella poesia. Il cavaliere che, animato da orgoglio e compassione, lotta per il raggiungimento della serenità può essere interpretato come la personificazione dell’ideologia elitaria della Secessione. La strada che deve intraprendere è una prova individuale di resistenza ai dolori e alle sofferenze della realtà, che può trovare giustificazione e risoluzione solo nelle arti. Klimt traduce così in immagini le parole di Nietzsche con un’eccezionale potenza figurativa, sospendendo le figure in un’atmosfera onirica, a confine tra l’incubo ed il sogno. Dopo l’aggressione di figure femminili terrificanti, oscure e deformi, l’artista realizza un delicato accordo di oro, bianco e marrone per la scena finale, opponendo in questo modo al caos primordiale della voluttà il regno ideale dell’arte:

Qui Apollo supera la sofferenza dell’individuo con la luminosa glorificazione dell’eternità dell’apparenza, qui la bellezza vince la sofferenza che inerisce alla vita, il dolore viene in un certo modo fatto scomparire dai tratti della natura[12].

Il coro di angeli alle spalle della coppia di amanti è un evidente richiamo al corteo di vergini in processione di S. Apollinare Nuovo e alle figure femminili di Hodler spesso raffigurate in un sacrale ordine simmetrico. L’abbraccio idillico è protetto da una sorta di scrigno d’oro, contenente oltre alle due figure, anche le due sfere cosmiche della Luna e del Sole. I due principi apollineo e dionisiaco, spirituale e terreno, si trovano compenetrati in un’unione primordiale in cui la gioia e il dolore si contrappongono e si conciliano come due facce di una sola medaglia. L’oro non è qui un segno paradisiaco nell’accezione cristiana del termine, perchè non è inteso, a differenza dei bizantini, come un attributo dell’abbagliante luce di dio, ma come la sacra luce dell’eternità dell’arte. Essa distrae temporaneamente l’uomo dalle miserie della quotidianità, ma non ne può eliminare le inesorabili leggi.

Klimt, in quanto artista dionisiaco, dimostra più volte di aver afferrato il senso profondo delle osservazioni di Nietzsche circa la vera essenza del mondo greco, abitato da equilibrio e caos, da bellezza e orrore, da spiritualità e sessualità. L’artista viennese infatti scelse un mondo onirico come scenografia per celebrare i suoi personaggi. Un mondo immaginario, nascosto e misterioso gli concesse il giusto mezzo attraverso cui far affiorare la carnalità delle donne fatali, senza scadere in volgarità. L’universo della mitologia greca diviene dunque il teatro ideale per mettere in scena un erotismo ancora innocente, tipico della fase dionisiaca dell’umanità.

In un ambiente immateriale fluttuano corpi di donne che richiamano il mistero della vita, la potenza fecondatrice dell’acqua, del Nilo che inonda le terre d’Egitto per compiere l’eterna volontà della natura. Antiche sirene intrecciano i propri corpi immersi in un oceano abitato da piante dalle foglie a forma di cuore, che alludono all’eros nella sua eterna connotazione di motore della vita. L’oro predomina in ogni dettaglio, nei capelli sciolti e avvolgenti delle seducenti figure femminili, nei gioielli preziosi che indossano e che ne sanciscono il potere e la nobiltà.

Erotismo dionisiaco attraverso un’immagine apollinea trasuda dalle Bisce d’acqua I. Bisce d’acqua, dunque serpenti marini, sono le protagoniste di una serie di dipinti di Klimt. L’andamento strisciante associato all’elemento acquatico rievocato nel titolo rimanda al simbolismo di antiche civiltà. Per i Greci il serpente, oltre che attributo di Atena, è uno degli animali sacri a Dioniso e si trova per l’appunto in relazione con la terra e la sfera degli inferi. Il suo movimento richiama inoltre alla mente il movimento dei neonati, che ancora incapaci di camminare strisciano sulla Terra Madre. In virtù di questa relazione con il grembo primordiale, è possibile associare al serpente un significato sensuale e generativo. Questo aspetto è stato particolarmente evidenziato anche nella simbologia cristiana, che ne ha fatto la manifestazione della tentazione diabolica, in relazione alla prima donna, ad Eva. Infine il serpente è intimamente connesso ad Igea, la figlia di Asclepio, per le sue apparenti capacità di rigenerazione associata alla sua facoltà di mutare la pelle. Tutte le sfumature simboliche che il serpente ha acquisito nelle religioni antiche erano ben note a Klimt, che aveva ricevuto un’educazione culturale vasta e raffinata. La presenza di questo rettile in molti dipinti è stata dunque ben oculata. In fondo l’artista viennese riteneva che l’arte, nonostante sia uno straordinario strumento di comunicazione, non è per tutti. La massa infatti non riesce a comprende la vera essenza dell’arte, né il vero intento dell’artista.

 

La critica del tempo non comprese neanche il valore della nudità femminile che nei dipinti di Klimt divenne un elemento decorativo. Il realismo insolito con il quale venne rappresentata non voleva risultare offensiva agli occhi dei contemporanei e tuttavia provocò un vero e proprio scandalo negli ambienti della Vienna perbene. Dionisiaco e apollineo sono sempre presenti nel duplice elemento dell’ebbrezza e del sogno. Per un artista eclettico come Klimt non poteva esserci un soggetto più stimolante di Danae , la bella figlia di Acrisio amata da Zeus in forma di pioggia d’oro, per poter trasporre in immagini questa innocente compenetrazione. Come racconta il mito Danae era stata rinchiusa dal padre in una grotta sotterranea, perchè l’oracolo aveva predetto che ella avrebbe partorito il suo assassino. Zeus, infatuatosi della giovane, riuscì ad unirsi a lei per mezzo di un divino stratagemma. Venne così alla luce Perseo, l’eroe che uccise Medusa, la cui testa troneggiò sullo scudo o sull’egida di Atena. L’oro è l’emblema della trascendenza dell’arte, ma rappresenta anche la metamorfosi del re dell’Olimpo, che anima la potenza vitale del grembo materno di Danae. Klimt affronta dunque il tema in maniera allusiva e per nulla oscena, facendo di quell’incontro furtivo l’episodio di un sogno. La giovane donna è rannicchiata in uno spazio ristretto e quasi soffocante, in una posizione fetale, quasi fosse contenuta dentro ad un grembo immaginario, velato da una stoffa trasparente il cui flusso ricorda il movimento delle bisce d’acqua. L’ambientazione onirica permette che Danae gema la sua passione attraverso una sensuale bocca socchiusa ed una mano che contrae il proprio piacere. Il rosso dei capelli accentua l’ebbrezza dionisiaca, che anche in questo caso si serve dell’atmosfera apollinea per legittimare la propria irruzione.

Le innovative ricerche storiche di Bachofen, la letteratura di uno scrittore controverso come Sacher-Masoch, la rivoluzione estetica annunciata da Nietzsche, gli splendidi mosaici bizantini di Ravenna, nonché lo stile e le idee innovative di artisti simbolisti europei come Von Stuck, Khnoppf e Hodler sembrano aver trovato terreno per la loro interazione nelle raffinate tele klimtiane, che si trasformano in un antico altare su cui celebrare la sacralità della donna. L’opera più emblematica in cui questa compenetrazione trova un perfetto compimento estetico è sicuramente La Vergine. Dopo un breve periodo di crisi creativa, Gustav Klimt, ormai lontano dal «periodo d’oro», si addentrò in quello che venne poi abitualmente chiamato lo «stile fiorito», a cui appartiene anche questo dipinto del 1912. Quest’ultima fase artistica prese il nome dalla vivacità della cromia utilizzata, e dei motivi che richiamano lo stile giapponese che in quell’epoca trovò ampia diffusione. Dal mondo orientale Klimt apprese un nuovo decorativismo che caratterizzò i suoi ultimi lavori. Ne La Vergine si assiste infatti ad un’esplosione di colori accessi che riempiono superfici delimitate da irregolari linee curviformi ed ondeggianti, che simboleggiano il caos primordiale. Al centro dello spazio pittorico una giovane donna abbandonata in un sogno profondo è avvolta da un flusso di corpi femminili, sensuali e concitati, che scivolano tra le pieghe dell’enorme coperta variopinta. L’atmosfera è nuovamente onirica, e la sensualità prende vita grazie alla sua trasposizione in un mondo immaginario. Il forte contrasto che il titolo dell’opera genera rispetto all’erotismo esplicito ma sempre raffinato che circonda la purezza della protagonista può essere interpretato come l’eterna opposizione e sintesi che abita l’essenza della natura: spiritualità e carnalità, anima e corpo, apollineo e dionisiaco che sempre si compenetrano e sempre lottano per una supremazia. La serenità con la quale la vergine si abbandona sembra imperturbata dalla presenza delle donne voluttuose. Esse possono essere interpretate come la trasposizione del sogno della donna, come irreali rispetto al mondo terreno, ma presenze vorticose nell’immaginazione della giovane addormentata. Esse figurano come la proiezione del suo sogno, sembrano impossessarsi di uno spazio immateriale, imponendo la loro presenza confusa e soffocante. L’immagine è sospesa tra illusione e realtà, in un universo femminile abitato da misteriose creature accattivanti e sensuali, in cui l’uomo ha perso il suo ruolo dominante e in cui l’arte diviene garante del mistero primordiale e strumento infallibile dell’artista dionisiaco.


[1] J.J. Bachofen, Il matriarcato, ed. italiana a cura di G. Schiavoni, Einaudi, Milano 1988, p. 34.

[2] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Adelphi, Milano 2006, p. 26.

[3] Ibidem, p. 145.

[4] G. Vattimo, Introduzione a Nietzsche, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 45.

[5] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., pp. 152-153.

[6] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 162.

[7] W. von Sacher-Masoch, Le mie confessioni, Adelphi, Milano 1998, p. 231.

[8] Bachofen, Il matriarcato, cit., p. 51.

[9] L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia, ES, Milano 2004, pp. 24-25.

[10] F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi, Milano 2003, af. 241, pp.192-193.

[11] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 45.

[12] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 111.