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Il corpo come FORMA PURA

Intervista allo scultore Christian Zucconi sul n.30 di HESTETIKA

“Christian Zucconi mette a nudo il bello scolpendo la materia, dando forma ai corpi umani capaci di svelare le loro cicatrici e, con esse, la loro possibilità di salvezza”.

di Laura Luppi

www.hestetika.it/magazine/

“IL CORPO COME FORMA PURA-“

Christian Zucconi mette a nudo il Bello scolpendo la materia, dando forma a corpi umani capaci di svelare le loro cicatrici e, con esse, la loro possibilità di salvezza.

A cura di Laura Luppi

Quando si parla di arte secondo l’accezione greca (téchne) che include la capacità manuale oltre a quella intellettuale di operare in una determinata attività, non si può non pensare ai grandi maestri del passato. Eppure, per fortuna, anche nella contemporaneità ci sono artisti che “sanno fare” con “perizia” e la cui abilità funge da strumento imprescindibile per una ricerca eclettica e introspettiva. Lo scultore piacentino Christian Zucconi ha risposto alle mie domande ripercorrendo la strada che lo ha condotto dai suoi primi e giovani passi alla maturità attuale, non priva di nuove prove e sfide personali.

Christian, i tuoi esordi con la scultura affondano le radici nella classicità, guardando ad artisti come Michelangelo e alle sue opere monumentali, una maniera di procedere con la materia marmorea ben diversa da quella con la quale ti relazioni oggi. Ricordi quali suggestioni ti evocavano quei capolavori?

Ho iniziato a lavorare il marmo da bambino, con le forze e le fantasie di un bambino che vuole fare lo scultore perché tale si sente (senza conoscerne il motivo, né la molla, ma tant’è); nella testa un solo modello, negli occhi quelle immagini inspiegabili e perciò potenti. Tuttavia, per quanto le forze e le fantasie di un bambino siano illimitate dal punto di vista astratto, concretamente devono maturare per diventare personali. Non migliori, personali. Oggi niente ho perso dello stupore di colui che guarda, ma da scultore non sento più di poter esprimere quel tipo di monumentalità: il mondo e io stesso siamo rimpiccioliti.

La tua ricerca artistica si è spinta presto verso altri orizzonti, lontano dall’estetica scultorea tradizionale nella direzione di un linguaggio che potesse parlare con maggiore efficacia all’uomo contemporaneo. Da un’idea di bellezza stereotipata del corpo sei giunto a un’indagine più intimista su esso, a interrogativi in grado di sollevare questioni che riguardano la coscienza collettiva, le paure, le angosce individuali e allo stesso tempo sociali. Com’è nata questa svolta nel tuo percorso?

Osservando il corpo come pura forma. Che non significa disinteresse al contenuto, perché in questo caso è lo stesso: il corpo è contenente e contenuto, la forma ne è la figura. Osservando il corpo come pura forma si scoprono bellezze inaspettate, e quello che non si aspetta spaventa, e tutto quello che spaventa viene condannato senza appello, o mascherato. Questo a volte porta a un’estetica rassicurante, che rende accettabili alla vista anche le cose più atroci. Con il mio lavoro non vorrei rendere accettabile il brutto, il diverso e lo spaventevole, bensì scoprirne il bello e metterlo in piena luce.

La tecnica “Kenoclastica” da te ideata – consistente nella distruzione di un lavoro completato, il suo svuotamento e la sua successiva ricomposizione – sembra parlarci di ferite fisiche quanto interiori con la violenza della loro immediatezza. A nudo infatti paiono esserci non solo i corpi, mutilati o riassemblati, ma anche le nostre emozioni (con la loro carne viva e sanguinante), accentuate altresì dai tuoi atti performativi (come quello su Depositio Christi del 2016) che con questo procedere hanno a che fare. Una distruzione a cui segue sempre una rinascita sofferta, è così?

Per provare a comprendere ciò che non posso vedere e toccare, da sempre ho bisogno di creare forme tangibili, di scavare nella pietra, di sentirmi io stesso pietra. Nel contesto di questa identificazione rituale con il materiale, rompere, spezzare un’opera finita significa caricarla (e caricarmi) di altre possibilità. La ferita comporta da una parte il dolore e dall’altra la speranza. Le cicatrici sono i “segni” che sulla pelle (e sotto la pelle) testimoniano il percorso di guarigione.

I tuoi corpi spesso si trovano a dialogare con spazi espositivi museali importanti, come il Castello Sforzesco di Milano o i Musei Civici di Palazzo Farnese di Piacenza, relazionandosi con la mitologia classica oppure con la religiosità cristiana. Qual è il punto di contatto tra questi ambiti e il tuo lavoro? Può forse essere individuato nella riflessione sull’uomo punito dagli Dei a causa della sua tracotanza e sull’idea di martirio alla base della santificazione dell’uomo cristiano?

È la sintesi di cultura classica e cristiana a fondare la cultura occidentale. Lo vediamo bene in Dante, dove elementi dell’una integrano e completano elementi dell’altra creando un nuovo mondo. In questa sfera mi muovo: da scultore nato a Piacenza alla fine degli anni Settanta del Novecento. In questa sfera concepisco i miei lavori: partendo dallo spazio e dal contesto dove dovranno mostrarsi e respirare. Tutto il mio lavoro si basa sul dialogo con lo spazio e con il tempo, non come nostalgico richiamo al passato, piuttosto per la convinzione che la storia sia un infinito presente. Potermi relazionare a spazi così importanti e pregni di storia è stata una fortuna e un onore, tuttavia ogni spazio espositivo, dal più grande al più piccolo, mi ha dato la possibilità di continuare questo dialogo, e sono grato a tutti coloro che negli anni lo hanno reso possibile.

Quando si parla di corpo si parla anche di sessualità di genere, argomento assolutamente attuale e suggerito da molte delle tue opere scultoree. Come si sviluppa all’interno della tua ricerca?

Il genere è una convenzione culturale, la sessualità no. L’argomento è attuale proprio perché la nostra cultura sta cambiando, e, cambiando l’approccio culturale, cambiano anche le immagini che lo rivelano. Forse l’essere umano non avrà più la grandezza morale per mettere un nudo di quattro metri in piazza, ma sarebbe un peccato non vederne più la bellezza in quanto corpo. Il corpo di ogni essere umano, ma proprio di tutti, è un capolavoro. Ricercare nell’anomalia, congenita o acquisita, in ciò che è diverso, è ricercare nell’alterità una forma comune, e perciò un’identità comune, che nello spettatore sembra perduta.

L’ultima evoluzione del tuo lavoro ha a che fare non solo col corpo, ma anche col movimento, caratteristica preclusa alla scultura classica. Hai infatti realizzato una serie di opere per lo spettacolo teatrale “Cicatrici” di Kronoteatro, in prima assoluta alla 46° Biennale di Venezia Teatro il 31 luglio, per le quali hai temporaneamente abbandonato il travertino persiano preferendo l’utilizzo del legno. Puoi anticiparci qualcosa a riguardo?

Tutto parte dall’idea di agire su una scultura definibile “terminata”. Sembra che uscita dal laboratorio un’opera sia immutabile, non abbia più storia. Invece porta segni che testimoniano una vita indipendente dall’artefice. “Cicatrici” mi permetteva di spostare l’asticella delle conseguenze, di concepire sculture neutre e pulite per essere sporcate e riempite di vita dagli attori. In questi termini ho aderito immediatamente al progetto di Kronoteatro, con entusiasmo e senza pensare alle concrete problematiche. Come un bambino, per l’appunto, e i problemi si sono immediatamente presentati. In una situazione di scena l’utilizzo del legno era infatti d’obbligo, anche solo per la questione del peso, e, non avendo esperienza né sul materiale né sulla materia, ho avuto il privilegio di ripartire dal principio: dallo studio dell’intaglio a quello del teatro, classico e di figura; dalla grande tradizione emiliana dei burattini alle marionette; dalle bambole fino ai manichini anatomici e alle statue da vestire della religiosità popolare. Quello che ne è uscito è la mia interpretazione di questi mondi, e la meravigliosa danza di Tommaso e Noah che ho vissuto come colui che guarda.

http://www.christianzucconi.it/