L’arte per tutti, Keith Haring a Palazzo Reale
Una mostra che riflette e fa riflettere sulle principali fonti di ispirazioni di un artista fortemente convinto che l’arte sia per tutti, senza rinunciare alla ricerca e alla contaminazione. Keith Haring a Palazzo Reale di Milano. Ne parlo su HESTETIKA N.25, in libreria, in edicola e su apple store.
“Keith Haring, l’arte per tutti a Palazzo Reale2
Di Laura Luppi
L’arte non è una questione d’élite, non per tutti almeno. Uno dei più noti artisti a pensarla in questo modo fu un giovane ragazzo della Pennsylvania, giunto a New York nel 1978 in cerca di ispirazione. Nato a Reading nel 1958, Keith Haring è stato spesso associato al fenomeno del graffitismo americano, della seconda generazione nel dettaglio, ma non sempre a ragione. La grande differenza tra lui e i writers che si arrampicavano sui cornicioni e sulle impalcature della città imbrattando muri e vagoni di treni e metropolitane con scritte colorate, è che per Haring lo scopo non era l’autoproclamazione attraverso un nome d’arte da diffondere come una sorta di logo. Il fine del suo intervento sul tessuto urbano potrebbe considerarsi diametralmente opposto. Egli infatti difficilmente apponeva la firma alle opere su strada, a quelle figure stilizzate tratte da molteplici fonti, prima fra tutte il mondo dei fumetti (passione condivisa col padre) e della grafica pubblicitaria. Celebri i suoi omini, il cane, i cuori, le televisioni, i motivi tribali, ideogrammi dal sapore tipografico e ambasciatori di opinioni politiche e sociali. Nella loro semplicità e immediatezza questi strani personaggi, infatti, racchiudevano un messaggio diretto rivolto a chiunque vi ponesse per caso lo sguardo. Difficile restare indifferenti di fronte a un universo allegro e divertente raffigurato con energia e vitalità, nonostante tematiche a volte forti o scottanti. Un’esplosione di segni e colori accesi, pochi ma efficaci, proposti al pubblico per parlare di amore, sessualità, razzismo, discriminazione, vita, ma anche malattia e morte, quella che purtroppo lo raggiunse a soli 31 anni a causa dell’AIDS. L’arte è per tutti, come dicevamo, soprattutto per un artista che ha fatto delle banchine della metropolitana newyorkese il suo personale studio di pittura “a cielo aperto”: un gessetto bianco in tasca e il pannello vuoto di uno spazio pubblicitario come lavagna o supporto materiale per le sue creazioni, divenute presto l’icona di un’intera generazione. Velocità e immediatezza del tratto il suo timbro, improvvisando direttamente sulla “tela”, per evitare di essere arrestato come a volte è accaduto per un’attività ritenuta illegale.
La sua può definirsi Pop art, non vi è dubbio, ma molto altro si cela dietro a una linea nera che circoscrive figure in movimento e in perpetua comunicazione con l’osservatore. Primitivismo ed elementi classici sono infatti alla base delle sue ricerche di forma e stile, con un occhio attento alla contemporaneità, ai lavori di Pollock, Jean Dubuffet e Paul Klee. Ed è la riflessione attorno a questi riferimenti artistici – non sempre sufficientemente affrontati dalla critica – a muovere le intenzioni della mostra “Keith Haring. About Art”, curata da Gianni Mercurio e visitabile a Palazzo Reale di Milano fino al 18 giugno 2017. Dal dialogo tra gli oltre 110 lavori presenti, molti inediti per l’Italia, e le opere da cui l’artista ha tratto ispirazione – dall’archeologia alle arti precolombiane, dal Rinascimento italiano fino ai maestri del Novecento -, il percorso espositivo si concentra attorno alla sensibilità di Haring nei confronti prima di tutto dell’uomo. L’uomo è rappresentato con tratti apparentemente elementari ma sintesi di una personale reinterpretazione di linguaggi appartenenti ad epoche e autori differenti; l’uomo – o meglio il simbolo di esso – gioisce, denuncia, viene inghiotitto dalla tecnologia o emarginato dai pregiudizi di razza o genere. L’uomo dal vocabolario archetipico, intuitivo per chi lo guarda comporre concetti attraverso sequenze di indizi utili per la soluzione di un enigma dal contenuto spesso scottante; l’uomo comune che può liberamente fruire ed usufruire dell’arte attraverso gadget e oggetti a lui accessibili, sia per il costo che per il significato incluso. Questa forse la nota critica dolente nei confronti di Keith, cresciuto artisticamente sulle strade dei quartieri emarginati e popolari, giunto alla fama e al successo grazie a mostre in gallerie prestigiose e all’ala protettiva di star del calibro di Andy Warhol. Aprire un negozio di oggettistica come il Pop Shop con lo scopo di porre l’arte a disposizione della massa, lo ha esposto al giudizio malizioso di chi in questa mossa ha voluto vederci una speculazione commerciale in antitesi con la natura idealista ed elitaria dell’arte tradizionalmente o accademicamente intesa. Giusto o sbagliato che fosse, di sicuro tale fama ha concesso ad Haring la possibilità di viaggiare molto ed entrare in contatto con culture e usanze di luoghi vicini e lontani, e di arricchire così il suo bagaglio espressivo nel segno della contaminazione, contro ogni divisione e categorizzazione. In merito è doveroso ricordare il suo intervento sul muro di Berlino, un lungo murales di circa 300 metri pensato come contributo all’unione e riappacificazione tra la Germania dell’Est e quella dell’Ovest. Contro ogni guerra e discriminazione, Keith Haring ha dichiarato la propria omosessualità e in seguito la contrazione del virus dell’HIV per una vita sessuale piuttosto libertina e non doverosamente protetta, facendo della sua arte infine una missione sociale a favore soprattutto dei bambini colpiti dalla sofferenza. Regalando alla facciata del Convento di Sant’Antonio a Pisa quello che dai più è considerato come un vero inno alla vita, “Tuttomondo”, e come testamento un racconto non compiuto e quindi aperto alla narrazione, “Unfinished-Painting” presente in mostra a Palazzo Reale, Keith Haring si spegne nel 1990 lasciando dietro di sé un immaginario visivo e visionario destinato a restare indelebile nella memoria storica di un’epoca, la nostra.