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Intrecci d’artista

La mia intervista a Valentina De’ Mathà per la rivista HESTETIKA, n.22 luglio 2016.

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HESTETIKA MAGAZINE

 

“INTRECCI D’ARTISTA”

L’arte di Valentina De’ Mathà tesse i fili di quei momenti chiamati vita. Un complesso lavoro a confine tra pittura, fotografia e scultura.

 

A cura di Laura Luppi

 

Storie di incontri predestinati e poi voluti, come quello a Milano tra me e Valentina De’ Mathà davanti a un caffè a un anno esatto di distanza dalla festa di compleanno di un amico comune. Giovane artista italiana, nata ad Avezzano nel 1981, vissuta a Roma e residente in Svizzera dal 2008, Valentina mi racconta come nasce la sua ricerca, quali campi indaga e dove si sta volgendo.

Il tuo più recente lavoro è legato al concetto di non-separabilità (entanglement), fenomeno della fisica quantistica che ha ispirato le tue riflessioni sulle relazioni e interazioni inevitabili tra gli esseri viventi e il mondo. Ce ne parli brevemente?

Attraverso questo lavoro analizzo simbolicamente le capacità reattive degli esseri umani di fronte a eventi inesplicabili che si svolgono nella loro quotidianità e il collegamento con il Tutto. Credo fortemente nel potere decisionale dell’uomo, nella causa-effetto degli eventi, ma è anche vero che esistono dei fenomeni non deterministici che scompongono e sconvolgono i nostri ritmi. Per questo mi avvalgo quasi sempre di materiali che non mi permettono di avere su di essi una padronanza totale. Infatti da un lato c’è la tecnica, la tessitura, la ritualità, l’esecuzione prestabilita, dall’altra una dose di imprevedibilità dovuta alle reazioni chimiche dei materiali impiegati. Queste opere simboleggiano in qualche modo una frammentazione, scomposizione e ricomposizione della natura, appunto, il collegamento con il Tutto. È un lavoro basato sulla simbiosi tra me e la materia, ancestrale, spirituale e pratico.

Sarebbe quindi lecito parlare anche di panteismo?

L’esistenza è perenni dubbi, ricerche, scoperte, incertezze, precarietà, conferme; perenni consapevolezze, fallimenti, messa in discussione di presunte verità che ti portano all’esigenza di altre ricerche e scelte. È un eterno cadere e rialzarsi. Ha un processo circolare, a spirale, e si arricchisce con il movimento, con il fare e con il ripetersi.

Il risultato della tua ultima ricerca ti ha portato a sviluppare un progetto che include l’utilizzo di diverse tecniche tra cui la fotografia e la pittura, intrecciate tra loro (è il caso di dirlo) da un’altra arte che avrebbe il diritto di essere ritenuta “nobile”, la tessitura. Per realizzare ogni singola opera impieghi molto tempo, passando dalla camera oscura alla luce del giorno per dare forma a un vero e proprio arazzo. Puoi illustrarci le fasi principali?

Utilizzo differenti tipologie di carte chimiche e diverse emulsioni. Le carte vengono tagliate e intrecciate rispettando le proporzioni auree, poi assemblate, dipinte in camera oscura attraverso una serie di passaggi e procedimenti chimici, scomposte, fissate e lasciate ad asciugare. In seguito vengono composte nuovamente e infine cucite a mano. Le combinazioni sono infinite, simbolicamente è la materia che si disaggrega e poi diventa una forma altra. Ogni arazzo può richiedere anche mesi di lavoro e più di 200 metri di carta.

Ti immagino nel tuo laboratorio a mischiare componenti chimici. Quanta affinità può esserci tra artista e scienziato?

Moltissima! Entrambi sono dei ricercatori, fondano la loro ricerca sul paradosso, letteralmente “contro” “opinione”, ed entrambi costruiscono e abbattono muri in nome di una più alta consapevolezza dell’Essere. L’opera d’arte vive nel dialogo con chi la contempla, diventa tale solo quando le restituiamo la sua unità, appunto, contemplandola. Secondo la fisica quantistica lo stesso vale anche per il mondo naturale.

Molte figure mitologiche sono abili tessitrici. Ricordiamo ad esempio l’astuta Atena, Anankè e le Parche impegnate a filare vita e conoscenza, la tenace e paziente Penelope, ma anche Calipso e Circe tramatrici di inganni, oppure Aracne attorno a cui si era costituita una piccola comunità di donne. L’arte del tessere può dunque essere considerata come espressione di affermazione e ingegno, ma anche di resistenza e complicità femminile. Quali caratteristiche trovi a te più affini?

Tessere significa creare, generare qualcosa della propria sostanza: intreccio di eredità ancestrali e storia  individuale. Un filo sottile si può trasformare in un intero pezzo di stoffa, questa è la magia della vita, del tramandare. Ho letto che in una cerimonia nord-africana le tessitrici tagliano con solennità l’ultimo filo dell’ arazzo recitando la stessa formula di benedizione pronunciata quando viene reciso il cordone ombelicale di un neonato. Tessere è un lavoro molto femminile, ancestrale; è un ritorno alle origini, alla famiglia, al tenere insieme le cose, i legami interpersonali, la cultura, gli scambi, gli incontri; è l’intreccio di relazioni e dipendenze. Si tesse l’istruzione e la conoscenza dell’uomo, lo spazio e il tempo in cui si intersecano continuamente mondo invisibile e realtà inevitabile. Tessere è la somma delle nostre scelte. La ritualità, la ripetitività, invece, elavano e perfezionano lo spirito, come lo zen.

I tuoi arazzi oltre a ricordarmi le trame dei tessuti mi fanno pensare agli intrecci dei cesti atti a contenere oggetti, oppure ai nodi che si possono fare con le corde per tenere fermo qualcosa che altrimenti andrebbe perduto. Qual è il tuo rapporto con le cose, i ricordi, il passato?

I cesti accolgono come il ventre materno. Ogni persona che incontriamo fa parte della trama del nostro arazzo, anche se il filo continua a scorrere e tesse altro. Siamo tutti collegati, anche quando poi apparentemente ci perdiamo e non ci incontriamo più. Con le persone, gli eventi, le cose, si fanno dei percorsi. Tutto ha senso in un determinato attimo della nostra vita. Non trovo sia giusto trascinarsi dietro l’idea di qualcosa che era e che ora non è più. Guardo al passato con serenità e al futuro con curiosità, ma ciò che mi interessa davvero è il presente e l’attenzione, e le scelte che decido di compiere adesso. Il presente è la somma del passato e il seme del futuro.

Riflettendo sugli intrecci che si innescano tra persone, tra scienza, arte e filosofia, mi viene in mente Heidegger e il suo “Essere e tempo”. Senza entrare nei dettagli, l’esser-ci viene concepito attraverso l’incontro. Tendiamo cioè a condividere il mondo in atteggiamento di apertura e comprensione, prendendoci cura (nel significato latino di attenzione, premura, partecipazione anche emotiva) degli altri enti. Qual è la tua personale relazione col mondo, considerato anche l’utilizzo dei nuovi social network?

Sono una persona entusiasta e curiosa, mi nutro di incontri, scelgo con premura le persone con cui relazionarmi occhi negli occhi. Mi interessano gli scambi alla pari, la cura reciproca, l’educazione, il rispetto e la parola data. Se ci sono questi elementi posso davvero affermare di esser-ci, se mancano, l’incontro non ha senso di essere. Vivo in un luogo di confine separato da una dogana, un luogo non luogo. La Svizzera è al centro dell’Europa, eppure ne è fuori. La maggior parte del mio tempo lo trascorro in studio a lavorare. I social network sono una piattaforma di scambi, una finestra sul mondo, un modo di uscire fuori e di mantenere un contatto.

Ma ciò che fai ti rappresenta o ti rappresenti attraverso ciò che fai? Quanta consapevolezza ci può essere nell’identificazione dell’artista con la sua opera?

Rappresento me stessa attraverso ciò che faccio, quindi, automaticamente, ciò che faccio mi rappresenta. Per periodi, spesse volte lunghi, si lavora impulsivamente e ossessivamente a un’idea. Poi arrivano quei momenti di forte lucidità in cui metti tutto in discussione, ti analizzi e raggiungi nuove consapevolezze segnando altri traguardi, scoprendo e riscoprendo te stessa. Le mie opere sono un’estensione di me e, benché riescano a stare in piedi da sole, provengono da me e rappresentano tutta l’autenticità della mia visione sul mondo.

Per concludere, so che sei alle prese con un nuovo progetto che in qualche modo ti riavvicina ancor di più al mezzo fotografico e al gesto pittorico, alla base della tua formazione artistica. Puoi svelarci qualche piccola anteprima?

È un progetto pittorico realizzato sempre in camera oscura e che prende spunto dalle “Quattro stagioni” di Cy Twombly (uno dei miei più grandi punti di riferimento nell’arte), ma con una realizzazione formale ampiamente diversa. È ancora work in progress, ma già i primi risultati mi soddisfano molto e mi entusiasmano. In questo momento della mia vita sento di aver raggiunto una maggiore maturità e consapevolezza sia come donna che come artista. Questo nuovo lavoro è formalmente più “leggero” rispetto a quelli precedenti per via della scelta di supporti trasparenti, e colori più evanescenti. In realtà non parlo di leggerezza, ma di chiarezza, lucidità e consapevolezza. È una necessità di tornare alla pittura senza troppe spiegazioni. La pittura basta a se stessa e, per me, rimane il mezzo espressivo primordiale più efficace. Contemporaneamente continuo a lavorare su nuovi arazzi per la mia prossima personale in autunno in America.